domenica 25 dicembre 2011

Mercoledì 28, Raicinque, ore 22,10. Com'era e chi era stato Aldo Moro prima del 1978

Per noi baby boomers, le due fotografie di Aldo Moro prigioniero e quella del corpo nella R4 hanno cancellato il Moro precedente. Che cosa aveva fatto, che tipo di leader, e anche che tipo di uomo era stato.
La sua è una storia molto densa. A partire dal 1959 era stato segretario della Dc per cinque anni, presidente del consiglio per altri cinque, ministro degli esteri fino al 1974 (con una breve pausa), ancora presidente del consiglio e presidente della Dc. Era stato l'architetto del centro-sinistra e del compromesso storico. Tutto questo in vent'anni.
La morte terribile e terribilmente italiana (non è vero che noi italiani siamo così buoni come ci raccontiamo), ha posto in secondo piano la discussione sulla sua azione politica (discussione che è ancora completamente aperta), e ne ha sovrastato l'identità a favore del "caso Moro".
Il 28 di dicembre va in onda una puntata di Icone con un carattere sentimentale. Cerca di riflettere su com'era lui e su com'è stato possibile che quelle tre fotografie prendessero il sopravvento. 
Dura solo 34 minuti, dunque inevitabilmente si limita a descrivere la questione, in modo un po' impressionista – così com'è la tv del resto. 
Abbiamo intervistato: Agnese Moro, sua figlia; Marco Follini, segretario del movimento giovanile della Dc tra il 77 e l'80 che, quattordicenne, aveva conosciuto Moro; Miguel Gotor, storico, il quale con due libri – uno sulle lettere di Moro dalla prigionia e l'altro sul memoriale – ha posto l'attenzione sulla figura personale di Moro, e compiendo una svolta generazionale anche sulla quella drammatica e generale incongruenza che furono gli anni '70.  
Raicinque, mercoledì 28 ore 22,10.

lunedì 19 dicembre 2011

Nota per le redazioni, per le radio nostalgie, per quelli com'eravamo. Il 1962, in un riassunto. Cinquantenari.

Il 1962 era cinquant'anni fa. Come ogni anno ricorre il cinquantenario di una quantità di cose.
Al cinema, "Lawrence d'Arabia", "Il sorpasso", "Il giorno più lungo", "Lolita", "Jules e Jim", "Che fine ha fatto Baby Jane".

Ma soprattutto un esordio, "007, licenza di uccidere". Con lei, Ursula Andress che esce dall'acqua in bikini. 
E lui che seduto al tavolo da gioco dice per la prima volta nella storia "Bond, James Bond".
 


Ma il 1962 è pieno zeppo di esordi indimenticabili. Il più indimenticabile di tutti è quello dei Beatles. Primo 45 giri, 5 ottobre 1962, Love me do. Sul retro P.S.I love you, di cui qui sotto. Raggiungeranno la diciassettesima posizione in classifica. 




Altro esordio, Diabolik (bisogna sempre aggiungere: delle sorelle Giussani). 
Primo albo, "Il re del terrore". Data di uscita, primo novembre del 1962. 
Prima fidanzata una Elisabeth Gay. 
Eva Kant comparirà nel terzo numero. 
La macchina di Diabolik è una Jaguar E-Type, bellissima e iconica, nella realtà è uscita un anno prima, ma il re del terrore capisce al volo le cose fiche.

        
Automobilisticamente parlando, il 1962 è l'anno di un altro esordio formidabile, la Ferrari Gto. L'acronimo sta per Gran Turismo Omologata. 
Ne furono costruite solo 39. Viene considerata la Ferrari più Ferrari di sempre.


Nel 1962 si nazionalizza l'energia elettrica e viene avviato il centrosinistra (che tecnicamente, però, arriverà l'anno dopo, quindi abbiamo un altro anno per le commemorazioni).
Nel ramo delle grandi storie, succedono – tra gli altri – anche due fatti tragici che diventeranno romanzeschi, la morte di Marlyn Monroe e quella di Enrico Mattei. Però sembra avantieri.   


sabato 10 dicembre 2011

A proposito del fatto che è difficile reinventarsi una vita senza un avversario

Recensione di un libro di Tim Adams del 2005, trovata nel computer, pubblicata da qualche parte – credo – ma non ricordo più dove.

Tim Adams si ricorda di John McEnroe, soprattutto in un pomeriggio del 1983, quando distrusse un certo Scanlon, Bill Scanlon, in un ottavo di Wimbledon. Lo strapazzò e strapazzò se stesso, grattandosi la testa, litigando con l’arbitro, tirandosi su le maniche della maglietta, imprecando e perdendo tempo. Tim Adams dice che quel pomeriggio gli si rivelò la ragione per cui John McEnroe sarebbe sempre stato un uomo alla cui vita mancasse qualcosa. Gli mancava Bjorn Borg. A pag. 9 di questo formidabile libriccino di memorie e saggistica mcenroesca, “Essere John McEnroe”, Mondadori, molto letterario perché privo di letterarietà, è possibile sentire lui stesso, JMcE, spiegare la questione: “Nel 1981, dopo averlo battuto prima alle finali di Wimbledon e poi agli Us Open, Borg ha smesso di punto in bianco di partecipare alle competizioni principali. Per me è stato devastante se è questo il termine giusto… chiaramente dopo di ciò mi sono sentito svuotato, perché fino a quel momento tutto era stato emozionante al massimo. Certo, c’erano altri grandi rivali – come Lendl e Connors – ma con Borg era più naturale. Avevamo personalità e stili di gioco così diversi, che non c’era bisogno di aggiungere altro”. 
Bjorn Borg aveva 24 anni e John McEnroe 21 quando si incontrarono in una delle più belle partite della storia, cinque set con un tie-break memorabile a 18 nel quarto. Era il 5 luglio 1980, Borg vinse il suo quinto Wimbledon consecutivo, e per la prima volta da quando dominava il ranking mondiale, ebbe davvero paura e poi, nonostante la vittoria, capì che era finita. L’anno successivo, McEnroe lo sconfisse e diventò il nuovo numero uno. Se ne stette in cima al mondo per tre anni (faticosi): per chi non aveva mai visto giocare la generazione dei Laver e dei Rosewall è stato il più incredibile giocatore e inventore di tennis che si sia mai ammirato. Scostumato, scostante, di una arroganza rara, ma era talento puro. Non aveva la pulizia che si sarebbe vista dieci anni dopo nei movimenti cristallini di Pete Sampras. Era un talento sporcato dal furore dell’invenzione, dal tratto personale. Batteva stando completamente parallelo alla linea di fondo. Questo gli serviva a nascondere la palla fino all’ultimo. Forse il suo colpo più bello – non sempre il più efficace – era la risposta al servizio di rovescio. Sapeva fare una cosa che nessuno ha mai fatto come lui: sapeva anticipare la risposta, cioè colpiva la palla senza fare il movimento d’apertura, dunque con la racchetta all’altezza della pancia come una chitarra (ma fu un pessimo chitarrista, giacchè aveva l’ambizione di diventare una rockstar, e – come racconta Adams – una volta David Bowie passò a prenderlo dal suo albergo per andare a bere qualcosa, ma gli disse “purché non porti la tua chitarra”). 
Vinse 77 tornei di singolare e altrettanti di doppio, guadagnando 13 milioni di dollari di premi. In singolare vinse sette titoli del Grande Slam (i quattro tornei Open più importanti): tre Wimbledon e quattro Us Open; vinse anche dieci titoli di doppio nello Slam, e in singolare tre Masters (il primo a diciannove anni) e cinque volte la coppa Davis. E’ stato numero uno dal 1980 al 1984, l’anno in cui vinse tredici tornei e annichilì Jimmy Connors detto Jimbo nella finale di Wimbledon con un incredibile 6-1, 6-1, 6-2. 
Oggi, dopo una vita che ne contiene molte altre, John Mc Enroe ha sei figli e commenta il tennis per la tv, senza enfasi e senza eccedere nei ricordi. I ricordi ha scelto di esorcizzarli a suo modo, senza far finta che il tennis non sia mai esistito. Pertanto, gioca nei tornei Senior e chiama tutti gli amici di un tempo e cerca di convincerli a entrare anche loro nel giro degli ultraquarantenni che armeggiano ancora. Ce l’ha fatta con quel pazzo di Henri Leconte che non ha mai vinto uno Slam nonostante il genio mancino e con Peter Korda che era forte almeno quanto Sampras ma fu tradito dal nandrolone. Non c’è l’ha fatta ancora con Stefan Edberg, che continua pure lui ad allenarsi, ma non vuole giocare con gli altri. 
Lui, John, resta circodato da un aura. Basta guardare le sue vecchie foto, ricordarsi di quello stile da scugnizzo sì, ma molto per bene e incredibilmente moderno. Secondo Tim Adams John McEnroe non fu solo un genio tennistico, fu anche l’annuncio sognante e glorioso degli anni 80. Alla fine degli anni settanta “personificava sul campo quel genere di schietto individualismo che avrebbe caratterizzato il decennio successivo: quando giocava lui, non esistevano cose come la società”. Fu il primo testimonial globale dell’avanzata della neonata Nike sui mercati di tutto il mondo, fu l’uomo che vide chiudersi – lui regnante – il tempo delle rachette di legno, e fu soprattutto il ragazzo riccioluto che avremmo voluto essere, con una fascia rossa tra i capelli che con le mani sui fianchi manda al diavolo un arbitro che gli ha chiamato un out e lui gli chiede perché l’ha fatto e l’arbiro non se lo fila e lui lo incalza: “Risponda alla domanda. Ho detto: risponda alla domanda”.

mercoledì 7 dicembre 2011

Craxi e i suoi simboli, Rai5, ore 22,45

E' stato il leader politico italiano più divisivo del dopoguerra. Ma anche i suoi avversari gli hanno riconosciuto lo status di personalità dal grande carisma. Si è conquistato un posto nella storia politica nazionale, ma anche nella società e nell'iconografia collettiva. Bettino Craxi, è il protagonista della prossima puntata di "Icone". 
Del Craxi leader politico, primo presidente del consiglio socialista, si è detto molto in questi anni, e molto è stata analizzata la sua parabola personale. 
Nel corso di questa puntata di Icone si proverà a riflettere sul fenomeno Craxi, non tanto dal punto di vista dell'azione politica, ma da quello della capacità di produrre simboli. Linguaggio, abbigliamento, riferimenti culturali, Garibaldi, l'ottocento, nella vita politica di Craxi tutto diventa simbolico, fino al discorso alla Camera del 1992, al processo Cusani, e anche la scelta finale della sepoltura ad Hammamet. 
Interviste a: Pierluigi Battista, Paolo Cirino Pomicino, Giuliano Ferrara, Marino Bonaiuto, Stefano Rolando, Massimo De Angelis.

Perché la borghesia di De Rita e Galdo va in classifica dei libri

L’eclissi della borghesia
Giuseppe De Rita, Antonio Galdo
Laterza, pagg. 91, euro 14

Classi dirigenti in crisi, élite politiche ed economiche spiazzate dalla grande crisi globale, ossatura sociale debole, partiti fragili, sistema di rappresentanza del lavoro obsoleto. Scomparsa progressiva (ma forse non inesorabile) di una vera classe dirigente borghese.
Quindici anni fa, in un libro intervista Giuseppe De Rita, intervistato da Antonio Galdo, spiegava perché la borghesia italiana stava declinando a causa di una generale e omologante cetomediazzazione del paese. De Rita, sociologo, alla guida del Censis dal 1974, e Galdo, giornalista e scrittore, ritornano sul tema con un pamphlet più ottimista del titolo che hanno scelto: “L’eclissi della borghesia”, appena uscito con Laterza. Rispetto al 1996, l’analisi sulla scomparsa della borghesia introduce altri due elementi di riflessione: la frammentazione individualista della società italiana a cui corrisponde la crescita di una microimprenditorialità priva di una vera identità sociale; e la rivendicazione non negoziabile del benessere famigliare come status immodificabile, finanziato non soltanto dal lavoro e dalla produzione, ma soprattutto dal debito pubblico. Lo Stato si trasforma in ente erogatore per generare consenso. E cioè, il debito pubblico siamo noi, collettivamente. Il ceto medio come massa indistinta e petulante chiede – e ottiene – estensione senza limiti del welfare, assunzioni assistenziali nel pubblico impiego, un sistema pensionistico iniquo (retributivo, pensioni di anzianità molto generose, bassa età pensionabile, eccetera). Qui aggiungiamo che questo fenomeno ha riguardato – e riguarda – trasversalmente la società cetomediatizzata: i privilegi pensionistici dei potenti hanno una logica culturale identica a quelli di chi potente non è, ma comunque prende dalla comunità, intesa come Stato, più di quello che restituisce in termini di coscienza collettiva.
De Rita e Galdo individuano alcuni fattori che hanno bloccato l’evoluzione di un ceto-guida della società italiana. Eccoli in ordine sparso: i partiti universalisti, la selezione relazionale delle leadership, le irresponsabili pretese sociali delle famiglie, e poi – dagli anni ’90 in poi soprattutto – il divario tra ricchi e poveri che aumenta, la ricchezza che si concentra (e i ricchi che si aristocratizzano: va detto che questo fenomeno ha riguardato l’intero occidente), l’avanzata di un movente collettivo fatto di ipersoggettività e affermazione del sé sugellato dal successo politico di Silvio Berlusconi, le privatizzazioni come occasione mancata per irrobustire il capitalismo privato italiano.
Il libro si conclude con una apertura sul futuro. Finisce il ciclo berlusconiano, fuori dai partiti si registra la domanda di nuove forme di partecipazione collettiva, il 26 per cento degli italiani è organizzato in 53.000 associazioni (una specie di Big Society), esiste ancora una riserva di energia nazionale e di virtù civili. Si tratta di riattivarle.
Il ragionamento arriva in un momento propizio alla discussione sulla borghesia, discussione che di solito da noi genera diffidenza. Ma nel dibattito sulla successione a Berlusconi, sulla eccezionalità del governo tecnico, sull’eterna transizione italiana, sulla contrapposizione tra politica e tecnocrazia, c’è un aspetto che forse non è frutto di una coincidenza. Emergono nella crisi economica e istituzionale tre personalità molto analizzate e dibattute in queste settimane e che sono sulla scena pubblica da molti anni, Mario Monti, Mario Draghi e Corrado Passera. Le loro storie, diverse per i mestieri che hanno fatto, hanno dei punti in comune: una formazione tecnica, l’abitudine alla visione generale dei problemi economici, e l’estrazione, un’origine culturale e sociale, evidentemente borghese. Esiste una tradizione italiana di élite tecnocratiche che assumono delle responsabilità nei momenti di crisi. Questa volta, questa élite è chiamata a una scommessa che per le generazioni di chi ha passato i cinquant’anni non si ripresenterà più. E cioè uscire dall’occasionalità, dare a questi sprazzi di borghesia un progetto, una dimensione di carnalità politica.
Il Sole 24 Ore 

venerdì 2 dicembre 2011

Twitter e comunicazione politica. Una domanda di @tigella dopo un tweet di @GiulioTerzi





Riassunto. Augusto Valeriani, @barbapreta, su Twitter invita il ministro degli esteri italiano, @GiulioTerzi, a fare pressione anche via Twitter perché venga lberato un blogger egiziano, @alaa, messo in carcere. Altre persone – sempre su Twitter – intervengono nel dibattito chiedendo al ministro di intervenire.
Sollecitato, @GiulioTerzi effettivamente risponde su Twitter dicendo: seguiamo con attenzione tutti i casi di sequestro, il riserbo è indispensabile nell'interesse dei sequestrati. 
A questo punto Claudia Vago, @tigella, pone una domanda interessante. E cioè: è un bene o un male che un ministro sia presente su Twitter e che risponda ai tweet che gli vengono rivolti? E apre uno spazio di dibattito sul suo blog.

Secondo me il punto è questo. 

Concordo con chi ritiene che la risposta su Twitter di un ministro non possa che essere di circostanza su un caso come quello di una trattativa diplomatica.
Se poi un uomo di governo debba o possa comunicare anche attraverso Twitter è un altro discorso. Direi di sì. È solo una modalità diversa, più rapida e diretta.
In generale, però, mi sembra che tutta la questione della comunicazione politica sia oggi ampiamente sopravvalutata. Intendo dire che nell’idea di comunicazione politica è l’aggettivo – cioè “politica” – a essere preminente e a doversi fare sostantivo. Non può esistere una comunicazione politica senza la politica. La mia sensazione di uomo di mezza età che vive nel giornalismo è che in questo scorcio di contemporaneità, in questa immersione totale nei media, a tutti è sembrato che la prima qualità da richiedere alle leadership fosse la capacità di comunicare. Credo che questo sia stato un errore e sia stato determinato da tante e diverse cause (ma questa è un’altra storia). 

P.s. su questo secondo paragrafo, grazie a @FedericoSarica, direttore e ideatore di @RivistaStudio, ho provato a scrivere sulla rivista un articolo sulla comunicazione politica che partiva dal paradossale caso Obama, dove si sostiene come soprattutto in tempi di crisi, la capacità di comunicare non è sufficiente. Tutto deve partire dalla politica.  

mercoledì 30 novembre 2011

Nonfiction, ritratto rigorosamente anonimo di un tipo di ragazza (al momento) parecchio alla moda

Ha passioni molto meditate. Non ha mai avuto avversità preconcette per il partito di plastica e – da un lato umano, di solito sottolinea umano – le è simpatico B., lui. Però. Però se deve esprimere una preferenza sulla vita che le piace, sulle persone con cui si diverte o è a suo agio, le sgorga tutto un insieme di liberalismo automatico, di confortevolezza, di comodità e di benessere, quando si trova in una specifica situazione sociale e amicale. Lei è sincera e tra sé e sé ha sviluppato il suo modello di perfezione. Le piace quando in una famiglia si amano i riferimenti crociani (lato Elena) su infanzia dorata e snobismi liberali; conseguente sentimento agnostico per Benedetto, così come si preferisce Gioacchino Lanza Tomasi a Giuseppe. Altre boe: Malagodi su Mattioli ( “ah la Comit”), tutto Garboli, linea Longhi-Palazzeschi-Arbasino (per quest’ultimo tollerata la devozione, essendone tutti ammiratori e un po’ imparentati); simpatie varie per Giuliano Briganti e Renata Pucci (“Scusate la polvere”). Preferenze sull’arte da tenere in casa: Casorati, Capogrossi, Burri, a volte Turcato e – più giovani – De Dominicis, Pascali e Lo Savio (ovviamente sono apprezzate scelte più di mercato, Fontana, Twombly, ecc. ecc.). Mobili: un po’ di settecento e Gaetano Pesce (si apprezza Gufram, si detesta Philippe Starck, non ci sono parole per Kartell). Il romanzo italiano non esiste. In politica, rivalutare De Gasperi. Classi dirigenti in genere: rispetto per Guido Carli, per i collegi pavesi, per la memoria lontana di Oscar Sinigaglia e, più vicino a noi, Andreatta. Giudizio sospeso su Bobbio. Riflessioni su Agnelli. Stile di vita: moderato, pochissime danze, mezzi tacchi. Moda: per l’epoca Elsa Schiaparelli (aggiornarsi su Della Valle che ha rilevato il marchio); per l’attualità Miuccia Prada. Pochissime parolacce, tranne stronzo. Cinema, al giorno d’oggi per lo più americano. Giornali: il Corriere. Cucina: italiana leggera, pomodoro, basilico, carni magre in umido, antipasti pugliesi. Tipo di conversazione: altamente misto, politica, vita, pochi aneddoti, poco pettegolezzo (salvi casi eclatanti), sì a una spruzzata di calcio – e in genere agli eroi sportivi – sì alla sistemazione delle case, certamente sì ai temi economici, favorevoli alla stampa estera.
Poi di solito va in terrazza, le serate bellissime, si vede tutta Roma. Ma non gliene frega niente di non essere innamorata. “Vigili corrotti, nazione infetta”, pensa di default.


Acquisti per juventini

Citazioni per Antonio Conte 18, tra cui: quando segnò in sforbiciata volante un gol al Brescia su cross di Di Livio (1997), quando segnò una doppietta in un derby del 1993, quando lasciò trapelare all'esterno qualche frizione caratteriale con Marcello Lippi. 
Questi tre frammenti più altri 998, li troverete in "1001 storie e curiosità sulla grande Juventus", adattissimo di questi tempi di rinascimento juventino, con relativo orgoglio. Dalla nascita della squadra, camicie bianche, maglie rosa, poi quelle bianco nere giunte da Nottingham fino all'arrivo di Pirlo, passando per – a caso – Bettega, Boksic e Vialli. 
Molto divertente, pieno di aneddoti e cose buffe, scritto da Claudio Moretti, con prefazione di Edoardo Camurri, pubblicato da Newton Compton (euro 29,90).

lunedì 28 novembre 2011

Tommy. È morto Ken Russell




La moquette, i tendaggi, la toletta, il vetro e acciaio dei tavolini, la poltrona di pelle a forma di margherita, gli anni '70 trionfano. La bellissima e supersexy Ann-Margret macchia di rosso nel bianco assoluto della stanza rompe lo specchio. Roger Daltrey (Tommy) rinasce.
Ken Russell diresse Tommy nel 1975. È morto oggi a 84 anni.

venerdì 25 novembre 2011

Tra Sévigné e Santanchè



Circostanze della vita. Dopo aver letto dettagliatamente – in questo angoletto di mondo – una polemica giornalistica, con relativo botta e risposta, scaturita dalla tecnica d’uso di accenti e apostrofi da parte di una (molto) incongrua deputata del nord; e poi la compita letterina di una ex ministra della repubblica a proposito delle sue vocazioni, alzando gli occhi dal divano, lo sguardo è caduto fortuitamente sulla copertina rosa pallido – sbiadita da qualche anno di esposizione alla luce – di “La civiltà della conversazione”.
L’ho subito preso dallo scaffale.
Verificata la congiuntura – così accidentale e simbolica – che quest’anno cade il decennale della prima edizione, ho aperto il libro a caso e soffermato su quanto segue.  
Nelle sue memorie Talleyrand racconta che le conversazioni tra madame de Sévigné, madame de la Fayette e il duca de La Rochefoucauld furono una delle vette della civiltà francese nei due secoli d’oro, XVII e XVIII. A partire dagli anni Settanta del millesei queste conversazioni – quando i tre erano a Parigi – si svolgevano quasi ogni giorno nel salotto o nel giardino – a seconda della stagione – della casa di madame de La Fayette in rue de Vaugirard: “ci sembra di vedere madame de Sévigné nell’atto di raggiungere gli amici portando con sé il suo corteo di stati d’animo e il suo arsenale di notizie e di osservazioni irresistibili”, suggerisce l'autrice Benedetta Craveri.


Minutissimo frammento (una ventina di righe tra pagina 272 e 273) di un libro bellissimo e molto ricco, ho passato un paio d’ore a riguardarmelo. 
Sono 500 pagine di suggestioni, episodi, trame, cronache politiche e sentimentali che si intrecciano per duecento anni di storia francese e che formano il corpo e il sangue di una stagione unica e affascinante, in cui quattro o cinque generazioni di donne prendono in mano la loro società – una tra le più spettacolari di tutti i tempi – e la mettono a conversare. I nomi. I nomi vanno fatti perché spiegano e giustificano con i loro soli suoni almeno duecento anni (successivi) di snobismo: Catherine de Vivonne, marchesa di Rambouillet, al centro per quarant’anni del più importante snodo mondano francese; Julie d’Angennes, sua figlia; Charlotte de Montmorency, figlia dell’ultimo connestabile di Montmorency, e moglie di Henry de Bourbon, principe di Condé, detta Madame la Princesse; madame de Mottville, mademoiselle de Scudery, madame de La Sablière, madame de Maintenon, Ninon de Lenclos, la duchessa di Longueville, la marchesa di Sablè, la principessa di Guéméné, Anne-Marie-Luise d’Orleans, d’Eu, de Dombes, duchessa di Montepensier, nipote di Enrico IV, detta la Grande Mademoiselle.
la Grande Demoiselle

Sanno conversare, scrivere, far politica e sanno anche amare. Amano in varie forme, a dir la verità, non soltanto nel modo più tradizionale, quello di cui Bussy-Rabutin ha raccontato con particolari doviziosi a quei lettori pettegoli – come noi – che lo adorano. Spesso hanno dell’amore una idea iper-intellettuale, fredda, casta, religiosa. Ma c’è una cosa che appare come la più straordinaria di tutte, perché è la più lontana, la più estranea alla nostra contemporaneità: sono in grado di conciliare, di tenere insieme,  ricchezza, cultura e potere, sono depositarie di spirito e gusto.
Perché è un bel libro? Perché sin dall’inizio chi legge ha ben presente il finale. Quello imposto dalla Storia: la Rivoluzione, la conclusione dell’Antico Regime, con la sua tragica estetica della morte stilisticamente ben portata, le visite reciproche tra i condannati mentre attendono la chiamata al freddo della Conciergerie, i giudici, la carretta. E poi, altri due finali la cui responsabilità l’autrice lascia alla libertà di chi legge. Il primo, letterario. La matinée dai Guermantes, l’atto con cui il Tempo proustiano si chiude, proprio sulla malinconia di un mondo lontano del quale – centoquarant’anni dopo la Rivoluzione, finita la prima guerra mondiale - davvero non è rimasto più nulla, nemmeno una pallidissima eco. 
Talleyrand
L’altro finale - che è il frutto di un puro arbitrio del lettore, della sua necessità di spostare i piani, di relativizzare, di trovare un punto di contatto con la sua vita - è forse stupido, inutile, impossibile, provinciale, ma inevitabile ed è fatto più o meno così: ve le immaginate una madame Santanché, una madame Pinottì, Polverinì, Biancofioré, Carfagnà, Luxurià, una qualunque principessà della tv, una Mademoiselle La Rosà di Geracì – lei sì detta la Grande Mademoiselle - a coltivare lo Stile, a scrivere memorie, a inviare e-mail spiritose per raccontare le novità del momento alle figlie lontane?
Ho rimesso il libro a posto e ho digitato una roba su lady Gaga.

mercoledì 23 novembre 2011

Alì, Rai5, ore 22,10

Vola come una farfalla, pungi come un'ape. Liston, il nuovo nome. Il Vietnam, lui che non combatte e resta a casa. L'uomo più famoso del mondo. Gli incontri con Frazier. Una strana invenzione nel linguaggio, contributo a quello che sarà il rap. Quando eravamo re. Kinshasa, George Foreman, Alì boma ye. La malattia.
Interviste a Rino Tommasi, Federico Buffa, Gianluigi Recuperati, Filippo Sensi, Marino Bonaiuto, Nello Barile. 

lunedì 21 novembre 2011

Diventare abbastanza ricchi a 50 anni. Storia di Gori e Magnolia (e anche di Dallatana e Canetta)

da Panorama Econony
Cominciare una terza vita a 51 anni con un certo numero di milioni da parte, è una di quelle cose che molti vorrebbero. A Giorgio Gori è riuscito. La sua storia è nota: per diciassette anni in Mediaset dove cominciò con Carlo Freccero e dove è stato prima responsabile di tutti i palinsesti e poi direttore di Canale5 e Italia1. Nel 2001 ha fondato una società di produzione televisiva, Magnolia, che ha progressivamente ceduto al gruppo de Agostini, e poi ha lasciato due settimane fa, tentato da una nuova vita che dovrebbe essere la politica.
Come ha fatto Gori a costruire una macchina da 130 milioni di fatturato (secondo le previsioni quest’anno Magnolia farà +22% rispetto al 2010), intorno alle 2000 ore di tv l’anno, contratti per 450 persone, e assicurare alla sua creatura di sopravvivere al suo capo e fondatore?
Probabilmente la risposta a questa domanda è nell’origine dell’operazione Magnolia. Insieme a Gori, lasciò Mediaset una ragazza che era stata la sua vice, Ilaria Dallatana, e che è sin dall’inizio socio di Magnolia. In un’intervista a Prima Comunicazione dell’aprile del 2001, Gori racconta: “Ho conosciuto Ilaria quando sono andato a dirigere Italia 1 nel ’97. Lei arrivava da Telecinco ed era stata chiamata dal direttore uscente Vetrugno. Ci siamo incontrati sulla porta e abbiamo detto: Va bene, proviamo a lavorare insieme. Da allora non ci siamo più separati”. Insieme a loro c’è un piccolo gruppetto di persone, la segretaria di Gori, Valeria Colusso, e due produttori, Cristiana Molinero e Daniela Buonvino. Si unirà alla partita Francesca Canetta, la quale aveva anche lei lasciato Mediaset per andare a fare il capo del palinsesto di Tmc nella fase di transizione verso La7. E più avanti, nel 2003, sarà assunto un direttore commerciale, Francesco Busdraghi.
Ilaria Dallatana
Il segreto dell’operazione, come capita spesso nelle avventure editoriali e quasi sempre nella logica culturale dell’imprenditoria televisiva, è che il gruppo tende a percepire se stesso come una famiglia. Lo credono i dirigenti e lo credono anche quelli che lavorano per l’azienda. Quel genere di stato d’animo delle start-up, fatto di carisma del fondatore & spirito inclusivo. Dallatana ritiene che questo spirito non si sia modificato quando la società è stata comprata dai De Agostini: “Abbiamo conservato uno spirito da famiglia anche dopo l’integrazione internazionale in Zodiac”. 
Francesca Canetta
Naturalmente nello spirito di gruppo conta il percorso comune. Il gruppo parte nel 2001. Porta a casa subito un paio di produzioni per la7, che guidata da Roberto Giovalli, direttore di rete, in quella fase sta tentando l’operazione terzo polo (dopo due passaggi di proprietà ritornata in agenda nell’ultimo anno e mezzo). Fa una produzione per Mediaset, “Il protagonista”. Ma è con “L’eredità” per Rai1 – condotta da Amadeus (divertente imitazione di Max Tortora in un altro programma di Magnolia, Bulldozer) – che la piccola società si rafforza.
Poi succedono due cose importanti per definire l’identità editoriale della nuova società. La prima è un’intuizione attribuita a Francesca Canetta, responsabile dei contenuti. Magnolia entra nell’ideazione di prodotti per il satellitare, per le reti che stanno nascendo nel mercato che poi sarà occupato da Sky. Qui sperimentano un modello che punta ad abbassare i costi al minuto. Hanno la visione di chi è stato dall’altra parte, di chi è stato committente.
Giorgio Gori
Oggi con programmi tipo “MasterChef” per Cielo, “X-Factor” Sky1, “Sos tata” per Fox, “America’s Next Top Model” (Sky1), “Wedding Planners” e “Cortesie per gli ospiti” per Real Time il fatturato da tv satellitare e digitale vale poco meno del 40% del totale. Pperazioni dai costi contenuti tra i 40.000 e gli 80.000 euro per ora prodotta. Costo orario più elevato per MasterChef e per la parte di X-Factor che ancora producono, dopo che Fremantle si è ripresa il format.  
La seconda questione è il reality. Gori ha portato il “Grande Fratello” a Canale5, la grande svolta narrativa della tv che entra nel 2000. Tre anni dopo porta il reality in Rai con “L’isola dei famosi” (un “Survivor” più pop) e “Music farm”. In un’altra intervista, ancora a Prima comunicazione, nel gennaio del 2005 dice: “Non mi identifico con i reality show, però trovo siano la novità più interessante di questi ultimi anni di televisione”. Nei reality si confrontano con il modello Endemol, più generoso nei costi.
Spiega Dallatana: “Siccome in tv non si possono fare le nozze con i fichi secchi, non abbiamo mai fatto delle cose che fossero aldisopra delle nostre possibilità. Abbiamo imparato a lavorare sui budget, sulla ottimizzazione delle squadre e del personale, e poi abbiamo fatto delle scelte di genere e di contenuti, abbiamo scommesso su generi che potevano dare buoni risultati senza spese eccessive. La verità è che per quanto mi riguarda vengo da una generazione televisiva per cui il format è fondante, una tv meno visionaria, ma anche meno velleitaria”.
Con questo approccio, Magnolia diventa una macchina appetibile. Nel 2004 fattura circa 30 milioni di euro, con uno staff agile: dieci dipendenti fissi, quindici contratti a tempo determinato, e molto ricorso ai service.
Lorenzo Pellicioli
I buoni risultati consentono a Gori di cominciare a lavorare su una uscita graduale dalla sua creatura. Nel gennaio 2007 viene ceduto il 53,5% di Magnolia (e società controllate) al gruppo de Agostini per una cifra molto interessante. Si parlò di oltre 20 milioni di euro. Gori conservò la guida della società e il 25%, il resto rimase a Dallatana e Canetta. Presidente di Magnolia diventò Lorenzo Pellicioli, capo operativo della De Agostini e vecchio amico bergamasco di Gori. Il quale nell’accordo con De Agostini sfruttò al meglio le circostanze e i rapporti – certo – ma anche il momento di evoluzione del compratore. Il mercato giudicò quello fatto da Gori un affare. Ma De Agostini poteva permetterselo. Azienda superliquida si stava strutturando come holding di investimenti concentrata nel tempo libero. Aveva comprato Lottomatica, Gtech negli Stati Uniti, e stava entrando nei media. In Spagna ha comprato Antena 3, seconda rete commerciale del paese, intorno al 15% di ascolto medio. Aveva bisogno di contenuti. Aveva fatto un paio di incursioni nel cinema, l’acquisto di Mikado, distributore di cinema raffinato (il cui più grande successo è “Lanterne Rosse”), e una piccola partecipazione in Cattleya, società di produzione di cinema e tv. Così in cerca di contenuti più televisivi, comprarono Marathon in Francia, Rdf in Inghilterra, Zodiac in  Svezia, Magnolia in Italia. Obiettivo fare concorrenza a Endemol.
Nel dicembre del 2008 De Agostini mette insieme tutte queste società di contenuti. Il 100% di Magnolia viene inglobato da Zodiak Media Group. E i vecchi soci di Magnolia concambiano. Gori al momento ha ancora il 3,9% di Zodiak, Ilaria Dallatana e Francesca Canetta meno dell’1%. 
Ma da quel momento la successione è sostanzialmente preparata. Gori comincia a ragionare sui tempi dell’uscita dal gruppo. Nel 2010 Dallatana prende un sabbatico di sei mesi, rientra a inizio 2011 e viene nominata amministratore delegato. Gori diventa presidente. E si dimette due settimane fa a ridosso dell’iniziativa del sindaco di Firenze Matteo Renzi alla  Leopolda, anche per evitare le polemiche nate dalla sua partecipazione.
Nel mondo dell’industria editoriale e dell’intrattenimento italiani non ci sono molti casi di questo genere. Si può citare il caso di Pietro Valsecchi, produttore prima di cinema (“Un eroe borghese”, per esempio) e poi di fiction tv che ha ceduto la sua Taodue a Mediaset a una cifra consistente. Oppure il caso di Carlo Degli Esposti che aveva ceduto la cinematografica Palomar a Endemol e poi la ricomprò. Ma il caso Gori è diverso sul piano della scelta personale. Ha costruito un’azienda dalla quale se n’è andato per un’altra vita. E l’azienda sembra avere le caratteristiche di management e azionarie per sopravvivere al suo fondatore. Vale 130 milioni di fatturato, vive in un mercato diventato aperto, quello dei contenuti tv, e ha le spalle coperte da un editore con dimensioni e struttura internazionale. (twitter@MarcoFerrante)







giovedì 17 novembre 2011

Storia di Giorgio Gori e di Magnolia su Panorama Economy

Come un manager precostituisce l'uscita dalla sua creatura e la successione a se stesso.
L'avventura di un gruppo – Gori, Ilaria Dallatana, Francesca Canetta – che lasciò Mediaset nel 2001 per fondare una società di produzione, oggi nel gruppo De Agostini.

  

Su tvblog.it

Icone ringrazia tv.blog

mercoledì 16 novembre 2011

Fenomenologia di Giulio Andreotti Stasera su Rai5

È un emblema del potere italiano, un simbolo dell’Italia repubblicana e di una storia – la nostra – difficile, travagliata e controversa: Giulio Andreotti è protagonista dell’ottava puntata di Icone. 
Si rifletterà su tre aspetti: potere, corpo de leader, intelligenza mediatica. Si analizza il fenomeno più longevo della prima Repubblica, ininterrottamente in parlamento per sessantaquattro anni. Protagonista di vicende cruciali nella storia italiana. È stato immortalato in un film di successo internazionale e possiede una fisicità abbastanza unica che segue e asseconda il lungo processo di costruzione del suo personaggio pubblico.
Interviste a Giorgio Forattini, Pierluigi Battista, Paolo Cirino Pomicino, Massimo Franco, Marino Buonaiuto.
Rai5, ore 22,05.

Un lungo ritratto di Corrado Passera (pagina accanto, seguire il link).

Nella pagina accanto lungo ritratto del neo ministro dell'Economia reale Corrado Passera.
Como, l'idrovolante, la McKinsey, il rapporto con l'Ing. e quello con Bazoli. E poi la banca per il paese, l'interesse e la tentazione della politica che arrivano da molto lontano. 
Un altro pezzo della lunga trama dei tecnici che scelgono la sfida carnale della politica. Il ritratto fu pubblicato dal Foglio nel 2005. 

martedì 15 novembre 2011

Per rinfrancare lo spirito tra un enigma e l'altro, ecco in breve la web-storia molto juventina e già raccontata da Panorama dell'uccellino Antonio Corsa (e anche la sua vera faccia)

Si chiama Antonio Corsa, è l’animatore di un sito molto in voga tra gli juventini, www.uccellinodidelpiero.com. (Questo blog lo ha conosciuto per la bianconera intercessione del blog Camillo). Storia buffa. Corsa è molto informato sui fatti bianconeri, ma a Torino c’è stato un paio di volte, una sola allo stadio, l’anno scorso a vedere Juve-Samp (1-1). Vive a Brindisi, ha trentun anni, di mestiere si occupa di negozi di abbigliamento.
Avatar del noto blogger
È un blogger per caso, di base è un super-tifoso che capisce il calcio. Scriveva nei forum juventini, nickname “acb” (Antonio Corsa Brindisi), e – grazie a un’ottima fonte – aveva anticipato l’acquisto di Emerson, di Poulsen, e varie altre cose. Quando gli altri forumisti gli chiedevano “chi te l’ha detto?”, rispondeva “l’uccellino di Del Piero” (spuntato dallo spot molto buonista dell’acqua Rocchetta).
Così a un certo punto ha deciso di dare una svolta alla sua vita internettiana e ha fondato il blog. Qualche collaboratore fidato preso dai forum, solo analisi tecniche, schede sui calciatori e interpretazioni della realtà, come ha fatto nella battaglia vs Calciopoli. Viene considerato un indipendente, perché ha deciso di non avere rapporti con la società né con i giocatori. 
Avatar facebook del noto blogger
Quest’estate ha scritto una lettera all’ufficio stampa della Juve per annunciare che per gradimento nei confronti della nuova gestione non avrebbe più propalato notizie. Crede che l’indipendenza sia un fattore di credibilità. Così nonostante il nome del blog non ha mai parlato con Del Piero, è moggiano senza conoscere Luciano Moggi, ed è aziendalista senza essere intimo di Agnelli, salvi sparuti rapporti su Facebook.
Il blog è un successo. Ha 5 milioni di pagine lette in due anni. Ed è un sito aperto, chiunque può riprendere e copiare le sue cose. Ci guadagna zero, non vuole pubblicità sebbene gliene offrano. Non lo vuole trasformare in business perché dice che perderebbe autorevolezza. Una volta gli hanno offerto di comprarlo per una cifra interessante, e ha detto di no.
Vera faccia del noto blogger
È religiosamente schivo. Se lo invitano ai convegni su Calciopoli non ci va. Se lo invitano in tv idem, però quelli che in tv ci vanno, spesso lo chiamano per farsi briffare. Per l’informazione ufficiale è un inesauribile serbatoio di calcio e juventinità, ma non ha mai ricevuto un’offerta di lavoro da un giornale. P.S. Figlio di un ex arbitro internazionale di basket (Brindisi cestisticamente parlando è una Siena del Sud), la cosa stupenda è che ci capisce più di basket che di calcio. 

lunedì 14 novembre 2011

Il ritratto di Draghi è online

Mario Draghi in pillole, cioè 8600 battute su panorama.it. Buona lettura.

giovedì 10 novembre 2011

I Supermarii

Così, i Supermario sono due (e a nessuno dei due piace il nomignolo). Il primo alla guida della Bce dal primo novembre, il secondo – due volte commissario europeo, presidente della Bocconi, editorialista del Corriere della Sera – è da ieri senatore a vita e poi si vedrà.
Per sapere di più di questa coppia che compie il percorso dalla tecnocrazia alla politica (perchè di questo si tratta) nella pagina Ritratti di questo sito troverete – primo in alto a sinistra – un profilo di Mario Monti del maggio 2004 in cui viene enucleata tutta la complessa questione del montismo, come metodo di esercizio del potere. Quanto a Draghi, su Panorama oggi in edicola c'è un lungo ritratto, che va da una simpatia per i Rolling Stones ("You can't always get what you want"), all'influenza di una vecchia zia, fino a una casa prepalladiana a Stra. Buona lettura.   

mercoledì 9 novembre 2011

Tutto cambia, ma anche tutto torna

Queste sono la nuova Lambretta e un prototipo per la nuova Vespa (vitino di Vespa, appunto) ribattezzata Quarantasei.
C'è un dibattito sull'ispirazione vintagista dei mezzi di trasporto negli ultimi quindici anni. Forse il punto è semplicemente che ci sono forme non modificabili, la 911 p.es. 

martedì 8 novembre 2011

Che successe il venerdì santo del 1997. Piccola web-rece di un libro da leggere sull'affondamento della Kater i Rades

ALESSANDRO LEOGRANDE
Il naufragio – morte nel Mediterraneo
FELTRINELLI, pagg. 217, euro 15,00

Brindisi, il relitto della Kater i Rades
Dunque la storia è molto semplice. Un ufficiale della marina militare italiana, comandante di una nave da guerra (soltanto l'espressione nave da guerra rende l'idea di che cosa sia una nave da guerra) riceve un ordine contrario all'etica del mare. Infastidire, dissuadere, impedire a una piccola barca carica di civili di proseguire la navigazione. Il comandante obbedisce agli ordini fino a una conseguenza che neanche lui voleva (questo è obbligatorio concederglielo), ma che doveva immaginare. Colpita dalla nave, la piccola barca si rovescia e affonda. A bordo 115 persone. 34 superstiti, 81 morti, 57 corpi recuperati, 24 no. La maggior parte delle vittime è rimasta intrappolata sottocoperta, donne e bambini. Trentuno vittime avevano meno di sedici anni, 19 meno di dieci, una donna era incinta e morendo asfissiata ha espulso il feto. Solo un bambino si salva riuscendo a liberarsi da un oblò. È il 28 marzo del 1997, venerdì santo.
La nave era una nave da guerra italiana, la corvetta Sibilla. La barca affondata era una ex motovedetta della marina albanese, la Kater i Rades, che una banda di trafficanti utlizza per portare in Italia poco più di un centinaio di disperati che si imbarcano a Valona, per una cifra di un milione di lire a testa. Sarà recuperata dopo un anno dall'affondamento (molto belle nel libro le pagine in cui l'autore racconta la visita al relitto). 
 La Sibilla si avvicina alla motovedetta
La Sibilla ha una massa oltre cento volte superiore a quella della Kater. Le va addosso, la sperona mentre cerca di tagliarle la strada – guardate la foto accanto per capire di che cosa stiamo parlando.
Il comandante della Sibilla si chiama Fabrizio Laudadio, condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio plurimo colposo. È un personaggio conradiano. La sua storia è simile a quella di Jim. Per tutta la vita gli hanno insegnato il coraggio, ma quando deve darne prova, si dimostra vile (Lord Jim si riscatterà, di Laudadio non sappiamo). Il pubblico ministero Leonardo Leone de Castris si rende subito conto che c'è qualcosa che non quadra nella ricostruzione della marina. Ma neanche un processo in fondo benevolo con i militari, perché nega sin dall'inizio le responsabilità di due superiori di Laudadio, gli ammiragli Battelli e Guarnieri (anche la loro storia ha un tristissimo fondo di completa inadeguatezza), può assolverlo. 
Alessandro Leogrande è uno scrittore reportagista. Ha già scritto molto bene di caporalato e contrabbando nel Mezzogiorno. Con questo libro resuscita una storia terribile raccontata in modo mirabile e fino a oggi incompresa dall'opinione pubblica (la vicenda del venerdì santo 1997 ha anche un suo valore politico, in realtà solo accennato nel libro ma interessante, perchè fu una pagina difficile e imbarazzante per il governo presieduto da Romano Prodi e perché segna l'inizio della traversata nel deserto di Berlusconi all'opposizione, ma questa è un'altra storia). Leggere assolutamente Leogrande.

Dopo la morte del povero Giacomo Scalmani, ecco come sempre il germe dell'ipocrisia nazionale. Ipotesi di indagare i parcheggiati in doppia fila nella strada dell'incidente

La straordinaria ipocrisia di quello che resta di questo paese è in una piccola notizia tratta dalle cronache milanesi. Dopo la morte del piccolo Giacomo Scalmani, ucciso da un tram a causa di una macchina in seconda fila e uno sportello che si apre all'improvviso, ecco spuntare un'ipotesi grottesca: la procura sta vagliando l'ipotesi di indagare tutti i proprietari delle auto parcheggiate in seconda fila lungo il tratto di strada della tragedia, ecco che cosa scrive il Corriere. Ma tutti quelli che vivono in una qualunque realtà urbana intasata di auto sa due cose: a) che le macchine in doppia fila vengono tollerate dalle polizie municipali, tant'è che – solo dopo la morte del bambino – sono state multate ben 400 automobili in via Solari; b) che non esiste una seria politica della circolazione, dei parcheggi, del disincentivo all'uso dell'auto privata, eccetera. 
Dunque, ciò premesso, che facciamo: iscriviamo nel registro degli indagati il capo dei vigili urbani di Milano e l'assessore al traffico o comunque si chiami?
Giacomo Scalmani è morto ovviamente per una tragica, ingiusta e dolorosa fatalità, ma anche perché l'Italia è un paese selvatico, autarchico, poco interessato alle regole, e in un certo senso molto indegno di se stesso. 
Ma c'è qualcosa da fare per provare a migliorare le cose: regolare la circolazione, multare chi viola le regole della circolazione sempre (non solo dopo la morte di un bambino), liberare le strade dal traffico, rendere più efficace l'uso di mezzi pubblici, negoziare con i tassisti tariffe più interessanti, scambiare tariffe basse con maggiore utilizzo dei loro mezzi. 
Questo suggerimento anche per i leopoldisti che amministrano le città e devono dar prova di farlo non bene ma benissimo prima di candidarsi a più alte prove, e per i pessimi sindaci che neanche ci provano (qualcuno conosce mister Alemanno? Roma è in condizioni patetiche).

domenica 6 novembre 2011

Settimana Incom di tv & politica alquanto situazionista (ma non lo chiamavano teatrino?)

Settimana poco bloggista. In compenso vista un po' di tv. Conclusioni tratte: molto cabaret e come minimo molto situazionismo.
Primo posto, la gag Santoro-Lavitola, vero esempio di infotainment con lavagnetta, allusioni alla tv dei plastici in studio, complicità attoriale spinta, battute da ambo le parti, molto buone in certi casi ma anche spiazzanti per chi crede nelle parti in commedia: Santoro è un uomo di tv politicamente e antropologicamente contro Lavitola e quello che Lavitola rappresenta, Lavitola – soprattutto in questo schema – dovrebbe essere per Santoro un uomo che si è sottratto a un ordine di custodia cautelare. D'altra parte Lavitola dovrebbe considerare Santoro il leader degli avvelenatori mediatici. Dunque perché flirtano?
Secondo posto, Straquadanio irragionevole davanti all'Hassler vs la telecamera di Piazzapulita. Prima mandato in onda per alcuni minuti da Piazzapulita medesima in una confezione televisiva più simile a un montaggio tipo Jene o Striscia la Notizia, che non alla veste di una trasmissione di approfondimento (si chiamano così) dedicata al tema "come si esce dalla crisi". P.S. lo stesso Straquadanio il giorno dopo verrà praticamente blobbato dalla Zanzara, trasmissione di approfondimento radiofonico.  
Terzo posto, siparietto Cav-Trem in conferenza stampa al G-20 di Cannes. Lo spettatore prova imbarazzo per chi fa le domande, imbarazzo per chi risponde.
Quarto posto, Travaglio vs Gori, che a Travaglio non è piaciuto per via del suo ruolo alla #Leopolda, il format, i temi, la sintesi pdf delle 100 proposte, ecc. Non tifando per nessuno, gli argomenti di Travaglio sono politicamente poco interessanti.   
Quinto posto, un attacco di Libero sul modo in cui Diego Della Valle va in video e si veste e usa le sciarpe (a Serviziopubblico), in cui si applica a DDV lo stesso metodo estetico-antropologico che per anni è stato stigmatizzato nella prassi degli avversari, da parte degli edificatori di una cultura pro-Cav.
Questo è quanto, teatrino (si chiamava così no?) con attori imbolsiti dalle parti ormai consumate. Del resto anche lo show-biz programmaticamente leggero è in crisi: p.es. la Littizzetto e una terribile battuta su Carlà e sua figlia. 

mercoledì 2 novembre 2011

Stasera il corpo di Giovanni Paolo II Icone, Rai5, alle 22,10

Il Giubileo del 2000
Icone, puntata di stasera su papa Giovanni Paolo II, il papa di almeno due generazioni di persone. Di Woytila è stato detto tutto. Così, noi proveremo a raccontare il papa da un punto di vista laterale, la sua dimensione fisica: il papa che si presenta con una nuova fisicità sin dall'apparizione il 16 ottobre del 1978, le mani poggiate sul balcone, e una esplicità diversità. Quella stessa diversità che diventerà più chiara nel corso degli anni, quando – contrapponendosi simbolicamente ai papi diafani novecenteschi – desacralizzerà il corpo del papa, e ne farà semplicemente il corpo di un uomo. Dopo l'attentato e soprattutto dopo la malattia arriverà la risacralizzazione del corpo del papa. Nel corso del racconto anche una breve parentesi sull'uso dei media da parte di Giovanni Paolo II.
Grazie a tutti gli intervistati: Gigi Amicone, direttore di Tempi, spiegherà con che occhi i ragazzi cattolici della sua generazione guardarono Woytila; Jas Gawronski, racconterà anche come andò e che cosa fu la famosa intervista che il papa gli rilasciò nel 1993; due vaticanisti di generazioni diverse, Benny Lai e Andrea Tornielli; Filippo Sensi, giornalista e blogger, analista di comunicazione politica; Bruno Vespa che ricorderà la telefonata del papa a Porta a Porta.
Rai5, ore 22,10. Icone.  

martedì 1 novembre 2011

Annarita Buonocore, che rapì un neonato in un ospedale, dopo la condanna è tornata a fare l'infermiera in un altro ospedale (Si può dire stranissimo paese? #Leopolda)

C'è la grande crisi economica. Milano sprofonda, e la politica non trova soluzioni, ok. Ma la società? Sicuri di essere sani e tuttapposto? Ecco una storia incredibile. Fonte della quale non possiamo non fidarci – il Corriere della Sera, principale giornale italiano - riporta oggi, ed ecco il link al Corriere del Mezzogiorno, che la signora Annarita Buonocore (nella foto), la quale rapì un neonato nel giugno dello scorso anno al reparto maternità dell'ospedale Umberto I di Nocera Inferiore – reato per cui ha subito una condanna di sei anni di reclusione con il rito abbreviato – dopo nove mesi di carcere, ha ottenuto gli arresti domiciliari ed è tornata al suo lavoro di infermiera all'Ospedale Cardarelli di Napoli. Il suo avvocato ha spiegato che chiedere l'autorizzazione a uscire di casa per recarsi al lavoro era nel diritto dell'assistita anche perché quel lavoro è la sua unica fonte di reddito. E ha detto anche che tutto questo clamore è fuori posto (sic).
Che cosa si può fare, obiettare, recriminare, osservare, lamentare, #leopoldare, ecc? Con chi possiamo prendercela se non con noi stessi? Si può dire – senza il timore di passare per persona orribile o retriva o insensibile alle esigenze della giustizia sociale e persino redistributiva, o alle ragioni di chi rivendica il diritto a rifarsi una vita – che il posto di lavoro della signora Buonocore non dovrebbe essere l'ospedale Cardarelli di Napoli, ancorché soltanto nel turno della mattina?
   

sabato 29 ottobre 2011

Carlà, La Stampa


La puntata di Icone di mercoledì su madame Sarkozy recensita da Alessandra Comazzi

giovedì 27 ottobre 2011

Juve in testa alla classifica, ritratto di Andrea Agnelli su Panorama

La Juventus è prima in classifica (e avrebbe potuto avere più margine). Su che cos'è la squadra, si rimanda a un valentissimo sostituto di uccellinodidelpiero e alla sua analisi di ieri. Per un racconto sul metodo del nuovo presidente A.Agnelli, suo ritratto, e ricostruzioni plausibili sulle sue vere intenzioni nel caso Del Piero, leggere ritratto su Panorama appena in edicola.   

mercoledì 26 ottobre 2011

Nota. Draghi, in asse con Napolitano, chiede che le riforme della lettera a Bruxelles vengano attuate davvero

Oggi all'Acri ultimo discorso pubblico di Mario Draghi da governatore della Banca d'Italia. Intervenendo alla Giornata mondiale del risparmio, si è congedato dalla comunità finanziaria con la tradizionale asciuttezza. Poche cartelle lette, due soli passaggi fuori testo, uno sulla lettera del governo Bruxelles, l'altro di commiato e di consuntivo della sua esperienza a palazzo Koch.
Su questi due passaggi si sono concentrate le valutazioni degli osservatori. Sulla lettera, Draghi dice: ok, il contenuto dei provvedimenti va nella giusta direzione, ma adesso queste riforme vanno fatte sul serio. E siccome avranno un impatto sui ceti più deboli, troviamo delle soluzioni per proteggerli. È la linea Napolitano che poco dopo in trasferta a Bruges dice: "Nessuna forza politica italiana può continuare a governare, o può candidarsi a governare, senza mostrarsi consapevole delle decisioni, anche impopolari, da prendere ora nell'interesse nazionale e nell'interesse europeo".
Quanto al secondo passaggio fuori testo del governatore non è esattamente un incoraggiamento per il governo in carica. Draghi dice che questi sei anni sono passati invano e che si poteva fare di più. Ha tributato due menzioni molto speciali e sentite al presidente della Repubblica, il nostro principale punto di forza – ha detto – e alla Banca d'Italia, fucina di classi dirigenti. Alla fine dell'intervento, Gianni Letta si è alzato per congratularsi con il governatore uscente. Il ministro Tremonti, intervenuto dopo di lui, non è intervenuto sul merito della lettera, ha lanciato una implicita frecciata a Draghi, quando ha detto che l'occidente non si è occupato di rimettere ordine in un generale sistema di norme per regolare i mercati (il compito del Financial Stability Board  presieduto dal governatore), e ha concluso dicendo che il problema del paese non è solo la classe politica, ma la classe dirigente nel suo complesso.   
Niente di nuovo sotto il sole. Nessuna reazione del capo del Tesoro neanche sul merito dell'intervento di Draghi, il quale nel testo – dopo avere garantito della solidità delle nostre banche – ha parlato anche di riforme. Per contrastare la precarietà e i suoi effetti, il presidente entrante della Bce suggerisce l'adozione di un contratto unico con tutele progressive per gli assunti (sostanzialmente un periodo di prova più lungo dell'attuale, passato il quale vengono introdotte le regole dei contratti a tempo indeterminato) più i sussidi di disoccupazione. Sugli squilibri fiscali del nostro sistema chiede invece di ridurre le tasse sul lavoro e sulle imprese e di spostare il carico sull'Iva e sulla proprietà (si tratterebbe di una reintroduzione dell'Ici, ma non viene citata). Suggerisce infine un maggiore livello di concorrenza nei servizi e nel mercato dei prodotti e uno sforzo per costruire "un contesto amministrativo e regolatorio più favorevole alle imprese".   
Da domani Draghi parlerà da presidente della Bce e la voce della Banca d'Italia sarà quella di Ignazio Visco.