domenica 25 dicembre 2011

Mercoledì 28, Raicinque, ore 22,10. Com'era e chi era stato Aldo Moro prima del 1978

Per noi baby boomers, le due fotografie di Aldo Moro prigioniero e quella del corpo nella R4 hanno cancellato il Moro precedente. Che cosa aveva fatto, che tipo di leader, e anche che tipo di uomo era stato.
La sua è una storia molto densa. A partire dal 1959 era stato segretario della Dc per cinque anni, presidente del consiglio per altri cinque, ministro degli esteri fino al 1974 (con una breve pausa), ancora presidente del consiglio e presidente della Dc. Era stato l'architetto del centro-sinistra e del compromesso storico. Tutto questo in vent'anni.
La morte terribile e terribilmente italiana (non è vero che noi italiani siamo così buoni come ci raccontiamo), ha posto in secondo piano la discussione sulla sua azione politica (discussione che è ancora completamente aperta), e ne ha sovrastato l'identità a favore del "caso Moro".
Il 28 di dicembre va in onda una puntata di Icone con un carattere sentimentale. Cerca di riflettere su com'era lui e su com'è stato possibile che quelle tre fotografie prendessero il sopravvento. 
Dura solo 34 minuti, dunque inevitabilmente si limita a descrivere la questione, in modo un po' impressionista – così com'è la tv del resto. 
Abbiamo intervistato: Agnese Moro, sua figlia; Marco Follini, segretario del movimento giovanile della Dc tra il 77 e l'80 che, quattordicenne, aveva conosciuto Moro; Miguel Gotor, storico, il quale con due libri – uno sulle lettere di Moro dalla prigionia e l'altro sul memoriale – ha posto l'attenzione sulla figura personale di Moro, e compiendo una svolta generazionale anche sulla quella drammatica e generale incongruenza che furono gli anni '70.  
Raicinque, mercoledì 28 ore 22,10.

lunedì 19 dicembre 2011

Nota per le redazioni, per le radio nostalgie, per quelli com'eravamo. Il 1962, in un riassunto. Cinquantenari.

Il 1962 era cinquant'anni fa. Come ogni anno ricorre il cinquantenario di una quantità di cose.
Al cinema, "Lawrence d'Arabia", "Il sorpasso", "Il giorno più lungo", "Lolita", "Jules e Jim", "Che fine ha fatto Baby Jane".

Ma soprattutto un esordio, "007, licenza di uccidere". Con lei, Ursula Andress che esce dall'acqua in bikini. 
E lui che seduto al tavolo da gioco dice per la prima volta nella storia "Bond, James Bond".
 


Ma il 1962 è pieno zeppo di esordi indimenticabili. Il più indimenticabile di tutti è quello dei Beatles. Primo 45 giri, 5 ottobre 1962, Love me do. Sul retro P.S.I love you, di cui qui sotto. Raggiungeranno la diciassettesima posizione in classifica. 




Altro esordio, Diabolik (bisogna sempre aggiungere: delle sorelle Giussani). 
Primo albo, "Il re del terrore". Data di uscita, primo novembre del 1962. 
Prima fidanzata una Elisabeth Gay. 
Eva Kant comparirà nel terzo numero. 
La macchina di Diabolik è una Jaguar E-Type, bellissima e iconica, nella realtà è uscita un anno prima, ma il re del terrore capisce al volo le cose fiche.

        
Automobilisticamente parlando, il 1962 è l'anno di un altro esordio formidabile, la Ferrari Gto. L'acronimo sta per Gran Turismo Omologata. 
Ne furono costruite solo 39. Viene considerata la Ferrari più Ferrari di sempre.


Nel 1962 si nazionalizza l'energia elettrica e viene avviato il centrosinistra (che tecnicamente, però, arriverà l'anno dopo, quindi abbiamo un altro anno per le commemorazioni).
Nel ramo delle grandi storie, succedono – tra gli altri – anche due fatti tragici che diventeranno romanzeschi, la morte di Marlyn Monroe e quella di Enrico Mattei. Però sembra avantieri.   


sabato 10 dicembre 2011

A proposito del fatto che è difficile reinventarsi una vita senza un avversario

Recensione di un libro di Tim Adams del 2005, trovata nel computer, pubblicata da qualche parte – credo – ma non ricordo più dove.

Tim Adams si ricorda di John McEnroe, soprattutto in un pomeriggio del 1983, quando distrusse un certo Scanlon, Bill Scanlon, in un ottavo di Wimbledon. Lo strapazzò e strapazzò se stesso, grattandosi la testa, litigando con l’arbitro, tirandosi su le maniche della maglietta, imprecando e perdendo tempo. Tim Adams dice che quel pomeriggio gli si rivelò la ragione per cui John McEnroe sarebbe sempre stato un uomo alla cui vita mancasse qualcosa. Gli mancava Bjorn Borg. A pag. 9 di questo formidabile libriccino di memorie e saggistica mcenroesca, “Essere John McEnroe”, Mondadori, molto letterario perché privo di letterarietà, è possibile sentire lui stesso, JMcE, spiegare la questione: “Nel 1981, dopo averlo battuto prima alle finali di Wimbledon e poi agli Us Open, Borg ha smesso di punto in bianco di partecipare alle competizioni principali. Per me è stato devastante se è questo il termine giusto… chiaramente dopo di ciò mi sono sentito svuotato, perché fino a quel momento tutto era stato emozionante al massimo. Certo, c’erano altri grandi rivali – come Lendl e Connors – ma con Borg era più naturale. Avevamo personalità e stili di gioco così diversi, che non c’era bisogno di aggiungere altro”. 
Bjorn Borg aveva 24 anni e John McEnroe 21 quando si incontrarono in una delle più belle partite della storia, cinque set con un tie-break memorabile a 18 nel quarto. Era il 5 luglio 1980, Borg vinse il suo quinto Wimbledon consecutivo, e per la prima volta da quando dominava il ranking mondiale, ebbe davvero paura e poi, nonostante la vittoria, capì che era finita. L’anno successivo, McEnroe lo sconfisse e diventò il nuovo numero uno. Se ne stette in cima al mondo per tre anni (faticosi): per chi non aveva mai visto giocare la generazione dei Laver e dei Rosewall è stato il più incredibile giocatore e inventore di tennis che si sia mai ammirato. Scostumato, scostante, di una arroganza rara, ma era talento puro. Non aveva la pulizia che si sarebbe vista dieci anni dopo nei movimenti cristallini di Pete Sampras. Era un talento sporcato dal furore dell’invenzione, dal tratto personale. Batteva stando completamente parallelo alla linea di fondo. Questo gli serviva a nascondere la palla fino all’ultimo. Forse il suo colpo più bello – non sempre il più efficace – era la risposta al servizio di rovescio. Sapeva fare una cosa che nessuno ha mai fatto come lui: sapeva anticipare la risposta, cioè colpiva la palla senza fare il movimento d’apertura, dunque con la racchetta all’altezza della pancia come una chitarra (ma fu un pessimo chitarrista, giacchè aveva l’ambizione di diventare una rockstar, e – come racconta Adams – una volta David Bowie passò a prenderlo dal suo albergo per andare a bere qualcosa, ma gli disse “purché non porti la tua chitarra”). 
Vinse 77 tornei di singolare e altrettanti di doppio, guadagnando 13 milioni di dollari di premi. In singolare vinse sette titoli del Grande Slam (i quattro tornei Open più importanti): tre Wimbledon e quattro Us Open; vinse anche dieci titoli di doppio nello Slam, e in singolare tre Masters (il primo a diciannove anni) e cinque volte la coppa Davis. E’ stato numero uno dal 1980 al 1984, l’anno in cui vinse tredici tornei e annichilì Jimmy Connors detto Jimbo nella finale di Wimbledon con un incredibile 6-1, 6-1, 6-2. 
Oggi, dopo una vita che ne contiene molte altre, John Mc Enroe ha sei figli e commenta il tennis per la tv, senza enfasi e senza eccedere nei ricordi. I ricordi ha scelto di esorcizzarli a suo modo, senza far finta che il tennis non sia mai esistito. Pertanto, gioca nei tornei Senior e chiama tutti gli amici di un tempo e cerca di convincerli a entrare anche loro nel giro degli ultraquarantenni che armeggiano ancora. Ce l’ha fatta con quel pazzo di Henri Leconte che non ha mai vinto uno Slam nonostante il genio mancino e con Peter Korda che era forte almeno quanto Sampras ma fu tradito dal nandrolone. Non c’è l’ha fatta ancora con Stefan Edberg, che continua pure lui ad allenarsi, ma non vuole giocare con gli altri. 
Lui, John, resta circodato da un aura. Basta guardare le sue vecchie foto, ricordarsi di quello stile da scugnizzo sì, ma molto per bene e incredibilmente moderno. Secondo Tim Adams John McEnroe non fu solo un genio tennistico, fu anche l’annuncio sognante e glorioso degli anni 80. Alla fine degli anni settanta “personificava sul campo quel genere di schietto individualismo che avrebbe caratterizzato il decennio successivo: quando giocava lui, non esistevano cose come la società”. Fu il primo testimonial globale dell’avanzata della neonata Nike sui mercati di tutto il mondo, fu l’uomo che vide chiudersi – lui regnante – il tempo delle rachette di legno, e fu soprattutto il ragazzo riccioluto che avremmo voluto essere, con una fascia rossa tra i capelli che con le mani sui fianchi manda al diavolo un arbitro che gli ha chiamato un out e lui gli chiede perché l’ha fatto e l’arbiro non se lo fila e lui lo incalza: “Risponda alla domanda. Ho detto: risponda alla domanda”.

mercoledì 7 dicembre 2011

Craxi e i suoi simboli, Rai5, ore 22,45

E' stato il leader politico italiano più divisivo del dopoguerra. Ma anche i suoi avversari gli hanno riconosciuto lo status di personalità dal grande carisma. Si è conquistato un posto nella storia politica nazionale, ma anche nella società e nell'iconografia collettiva. Bettino Craxi, è il protagonista della prossima puntata di "Icone". 
Del Craxi leader politico, primo presidente del consiglio socialista, si è detto molto in questi anni, e molto è stata analizzata la sua parabola personale. 
Nel corso di questa puntata di Icone si proverà a riflettere sul fenomeno Craxi, non tanto dal punto di vista dell'azione politica, ma da quello della capacità di produrre simboli. Linguaggio, abbigliamento, riferimenti culturali, Garibaldi, l'ottocento, nella vita politica di Craxi tutto diventa simbolico, fino al discorso alla Camera del 1992, al processo Cusani, e anche la scelta finale della sepoltura ad Hammamet. 
Interviste a: Pierluigi Battista, Paolo Cirino Pomicino, Giuliano Ferrara, Marino Bonaiuto, Stefano Rolando, Massimo De Angelis.

Perché la borghesia di De Rita e Galdo va in classifica dei libri

L’eclissi della borghesia
Giuseppe De Rita, Antonio Galdo
Laterza, pagg. 91, euro 14

Classi dirigenti in crisi, élite politiche ed economiche spiazzate dalla grande crisi globale, ossatura sociale debole, partiti fragili, sistema di rappresentanza del lavoro obsoleto. Scomparsa progressiva (ma forse non inesorabile) di una vera classe dirigente borghese.
Quindici anni fa, in un libro intervista Giuseppe De Rita, intervistato da Antonio Galdo, spiegava perché la borghesia italiana stava declinando a causa di una generale e omologante cetomediazzazione del paese. De Rita, sociologo, alla guida del Censis dal 1974, e Galdo, giornalista e scrittore, ritornano sul tema con un pamphlet più ottimista del titolo che hanno scelto: “L’eclissi della borghesia”, appena uscito con Laterza. Rispetto al 1996, l’analisi sulla scomparsa della borghesia introduce altri due elementi di riflessione: la frammentazione individualista della società italiana a cui corrisponde la crescita di una microimprenditorialità priva di una vera identità sociale; e la rivendicazione non negoziabile del benessere famigliare come status immodificabile, finanziato non soltanto dal lavoro e dalla produzione, ma soprattutto dal debito pubblico. Lo Stato si trasforma in ente erogatore per generare consenso. E cioè, il debito pubblico siamo noi, collettivamente. Il ceto medio come massa indistinta e petulante chiede – e ottiene – estensione senza limiti del welfare, assunzioni assistenziali nel pubblico impiego, un sistema pensionistico iniquo (retributivo, pensioni di anzianità molto generose, bassa età pensionabile, eccetera). Qui aggiungiamo che questo fenomeno ha riguardato – e riguarda – trasversalmente la società cetomediatizzata: i privilegi pensionistici dei potenti hanno una logica culturale identica a quelli di chi potente non è, ma comunque prende dalla comunità, intesa come Stato, più di quello che restituisce in termini di coscienza collettiva.
De Rita e Galdo individuano alcuni fattori che hanno bloccato l’evoluzione di un ceto-guida della società italiana. Eccoli in ordine sparso: i partiti universalisti, la selezione relazionale delle leadership, le irresponsabili pretese sociali delle famiglie, e poi – dagli anni ’90 in poi soprattutto – il divario tra ricchi e poveri che aumenta, la ricchezza che si concentra (e i ricchi che si aristocratizzano: va detto che questo fenomeno ha riguardato l’intero occidente), l’avanzata di un movente collettivo fatto di ipersoggettività e affermazione del sé sugellato dal successo politico di Silvio Berlusconi, le privatizzazioni come occasione mancata per irrobustire il capitalismo privato italiano.
Il libro si conclude con una apertura sul futuro. Finisce il ciclo berlusconiano, fuori dai partiti si registra la domanda di nuove forme di partecipazione collettiva, il 26 per cento degli italiani è organizzato in 53.000 associazioni (una specie di Big Society), esiste ancora una riserva di energia nazionale e di virtù civili. Si tratta di riattivarle.
Il ragionamento arriva in un momento propizio alla discussione sulla borghesia, discussione che di solito da noi genera diffidenza. Ma nel dibattito sulla successione a Berlusconi, sulla eccezionalità del governo tecnico, sull’eterna transizione italiana, sulla contrapposizione tra politica e tecnocrazia, c’è un aspetto che forse non è frutto di una coincidenza. Emergono nella crisi economica e istituzionale tre personalità molto analizzate e dibattute in queste settimane e che sono sulla scena pubblica da molti anni, Mario Monti, Mario Draghi e Corrado Passera. Le loro storie, diverse per i mestieri che hanno fatto, hanno dei punti in comune: una formazione tecnica, l’abitudine alla visione generale dei problemi economici, e l’estrazione, un’origine culturale e sociale, evidentemente borghese. Esiste una tradizione italiana di élite tecnocratiche che assumono delle responsabilità nei momenti di crisi. Questa volta, questa élite è chiamata a una scommessa che per le generazioni di chi ha passato i cinquant’anni non si ripresenterà più. E cioè uscire dall’occasionalità, dare a questi sprazzi di borghesia un progetto, una dimensione di carnalità politica.
Il Sole 24 Ore 

venerdì 2 dicembre 2011

Twitter e comunicazione politica. Una domanda di @tigella dopo un tweet di @GiulioTerzi





Riassunto. Augusto Valeriani, @barbapreta, su Twitter invita il ministro degli esteri italiano, @GiulioTerzi, a fare pressione anche via Twitter perché venga lberato un blogger egiziano, @alaa, messo in carcere. Altre persone – sempre su Twitter – intervengono nel dibattito chiedendo al ministro di intervenire.
Sollecitato, @GiulioTerzi effettivamente risponde su Twitter dicendo: seguiamo con attenzione tutti i casi di sequestro, il riserbo è indispensabile nell'interesse dei sequestrati. 
A questo punto Claudia Vago, @tigella, pone una domanda interessante. E cioè: è un bene o un male che un ministro sia presente su Twitter e che risponda ai tweet che gli vengono rivolti? E apre uno spazio di dibattito sul suo blog.

Secondo me il punto è questo. 

Concordo con chi ritiene che la risposta su Twitter di un ministro non possa che essere di circostanza su un caso come quello di una trattativa diplomatica.
Se poi un uomo di governo debba o possa comunicare anche attraverso Twitter è un altro discorso. Direi di sì. È solo una modalità diversa, più rapida e diretta.
In generale, però, mi sembra che tutta la questione della comunicazione politica sia oggi ampiamente sopravvalutata. Intendo dire che nell’idea di comunicazione politica è l’aggettivo – cioè “politica” – a essere preminente e a doversi fare sostantivo. Non può esistere una comunicazione politica senza la politica. La mia sensazione di uomo di mezza età che vive nel giornalismo è che in questo scorcio di contemporaneità, in questa immersione totale nei media, a tutti è sembrato che la prima qualità da richiedere alle leadership fosse la capacità di comunicare. Credo che questo sia stato un errore e sia stato determinato da tante e diverse cause (ma questa è un’altra storia). 

P.s. su questo secondo paragrafo, grazie a @FedericoSarica, direttore e ideatore di @RivistaStudio, ho provato a scrivere sulla rivista un articolo sulla comunicazione politica che partiva dal paradossale caso Obama, dove si sostiene come soprattutto in tempi di crisi, la capacità di comunicare non è sufficiente. Tutto deve partire dalla politica.