venerdì 25 novembre 2011

Tra Sévigné e Santanchè



Circostanze della vita. Dopo aver letto dettagliatamente – in questo angoletto di mondo – una polemica giornalistica, con relativo botta e risposta, scaturita dalla tecnica d’uso di accenti e apostrofi da parte di una (molto) incongrua deputata del nord; e poi la compita letterina di una ex ministra della repubblica a proposito delle sue vocazioni, alzando gli occhi dal divano, lo sguardo è caduto fortuitamente sulla copertina rosa pallido – sbiadita da qualche anno di esposizione alla luce – di “La civiltà della conversazione”.
L’ho subito preso dallo scaffale.
Verificata la congiuntura – così accidentale e simbolica – che quest’anno cade il decennale della prima edizione, ho aperto il libro a caso e soffermato su quanto segue.  
Nelle sue memorie Talleyrand racconta che le conversazioni tra madame de Sévigné, madame de la Fayette e il duca de La Rochefoucauld furono una delle vette della civiltà francese nei due secoli d’oro, XVII e XVIII. A partire dagli anni Settanta del millesei queste conversazioni – quando i tre erano a Parigi – si svolgevano quasi ogni giorno nel salotto o nel giardino – a seconda della stagione – della casa di madame de La Fayette in rue de Vaugirard: “ci sembra di vedere madame de Sévigné nell’atto di raggiungere gli amici portando con sé il suo corteo di stati d’animo e il suo arsenale di notizie e di osservazioni irresistibili”, suggerisce l'autrice Benedetta Craveri.


Minutissimo frammento (una ventina di righe tra pagina 272 e 273) di un libro bellissimo e molto ricco, ho passato un paio d’ore a riguardarmelo. 
Sono 500 pagine di suggestioni, episodi, trame, cronache politiche e sentimentali che si intrecciano per duecento anni di storia francese e che formano il corpo e il sangue di una stagione unica e affascinante, in cui quattro o cinque generazioni di donne prendono in mano la loro società – una tra le più spettacolari di tutti i tempi – e la mettono a conversare. I nomi. I nomi vanno fatti perché spiegano e giustificano con i loro soli suoni almeno duecento anni (successivi) di snobismo: Catherine de Vivonne, marchesa di Rambouillet, al centro per quarant’anni del più importante snodo mondano francese; Julie d’Angennes, sua figlia; Charlotte de Montmorency, figlia dell’ultimo connestabile di Montmorency, e moglie di Henry de Bourbon, principe di Condé, detta Madame la Princesse; madame de Mottville, mademoiselle de Scudery, madame de La Sablière, madame de Maintenon, Ninon de Lenclos, la duchessa di Longueville, la marchesa di Sablè, la principessa di Guéméné, Anne-Marie-Luise d’Orleans, d’Eu, de Dombes, duchessa di Montepensier, nipote di Enrico IV, detta la Grande Mademoiselle.
la Grande Demoiselle

Sanno conversare, scrivere, far politica e sanno anche amare. Amano in varie forme, a dir la verità, non soltanto nel modo più tradizionale, quello di cui Bussy-Rabutin ha raccontato con particolari doviziosi a quei lettori pettegoli – come noi – che lo adorano. Spesso hanno dell’amore una idea iper-intellettuale, fredda, casta, religiosa. Ma c’è una cosa che appare come la più straordinaria di tutte, perché è la più lontana, la più estranea alla nostra contemporaneità: sono in grado di conciliare, di tenere insieme,  ricchezza, cultura e potere, sono depositarie di spirito e gusto.
Perché è un bel libro? Perché sin dall’inizio chi legge ha ben presente il finale. Quello imposto dalla Storia: la Rivoluzione, la conclusione dell’Antico Regime, con la sua tragica estetica della morte stilisticamente ben portata, le visite reciproche tra i condannati mentre attendono la chiamata al freddo della Conciergerie, i giudici, la carretta. E poi, altri due finali la cui responsabilità l’autrice lascia alla libertà di chi legge. Il primo, letterario. La matinée dai Guermantes, l’atto con cui il Tempo proustiano si chiude, proprio sulla malinconia di un mondo lontano del quale – centoquarant’anni dopo la Rivoluzione, finita la prima guerra mondiale - davvero non è rimasto più nulla, nemmeno una pallidissima eco. 
Talleyrand
L’altro finale - che è il frutto di un puro arbitrio del lettore, della sua necessità di spostare i piani, di relativizzare, di trovare un punto di contatto con la sua vita - è forse stupido, inutile, impossibile, provinciale, ma inevitabile ed è fatto più o meno così: ve le immaginate una madame Santanché, una madame Pinottì, Polverinì, Biancofioré, Carfagnà, Luxurià, una qualunque principessà della tv, una Mademoiselle La Rosà di Geracì – lei sì detta la Grande Mademoiselle - a coltivare lo Stile, a scrivere memorie, a inviare e-mail spiritose per raccontare le novità del momento alle figlie lontane?
Ho rimesso il libro a posto e ho digitato una roba su lady Gaga.