domenica 22 gennaio 2012

Art.18, la strana storia di un totem

Monti e Annunziata
Intervistato da Lucia Annunziata Mario Monti torna sull'articolo 18. No ai tabù, dice. 
Lo aveva già detto in una chiacchierata con Fabio Fazio, dicendo non è più tempo di simboli e che le riforme vanno fatte con pragmatismo. Ma l’articolo 18 ha ancora tutte le caratteristiche del simbolo (totem, Elsa Fornero dixit). Ecco una breve storia di questo strano oggetto normativo, uscita su Panorama Economy di due settimane fa. 
Fornero
Dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori si discute in Italia da quando la legge fu varata, 1970. E da sempre c’è chi che lo vuole cambiare, in senso estensivo o limitativo. Nel 1980 ci provò Democrazia Proletaria nel quadro di un’ipotesi di generale ripensamento dello statuto. Per tutti gli anni 90, l’articolo 18 fu per i datori di lavoro un simbolo dell’asimmetria normativa nelle imprese; e per i sindacati di un diritto inalienabile, una trincea.
Gino Giugni
Nella seconda metà del decennio, la Confindustria di Giorgio Fossa cominciò a chiedere più flessibilità. E l’art.18 fu utilizzato da un pezzo di centro-sinistra in piena terza via – tra Tony Blair, Bill Clinton, dalemismo, prodismo e Ulivo mondiale – come segnacolo del riformismo possibile, della modernizzazione del lavoro. Franco Debenedetti, presentò una proposta di legge che riprendendo un’idea di Pietro Ichino sostituiva una indennità economica al reintegro. Non se ne fece nulla.
Cofferati
Nel 2000 si celebrò un referendum abrogativo, ma non raggiunse il quorum. Per tre volte – 1982, 1998 e inizio 2001 – fu materia di sperimentazione, deroghe temporanee per neoassunti, interinali e socialmente utili.     
D'Amato
Poi, all’improvviso, diventò la causa di uno degli scontri più furibondi della storia delle relazioni industriali italiane. Antonio D’Amato vs Sergio Cofferati.
La storia è questa. Nel 2001, D’Amato diventa a sorpresa capo di Confindustria battendo sul filo di lana il candidato della Fiat Carlo Callieri. Ha un rapporto molto forte con Silvio Berlusconi, chiede al nuovo governo di centro-destra un’azione simbolica. L’articolo 18, e cioè il sì alla possibilità dell’imprenditore di non reintegrare il lavoratore dopo la decisione del giudice in una causa di lavoro per licenziamento senza giusta causa, ma di procedere con un indennizzo. La cosa, a dire la verità, non convince neanche il potere confindustriale. L’art. 18 riguarda solo le grandi imprese che però hanno sempre preferito trattare col sindacato. Ma la macchina di D’Amato è partita. La Cgil di Sergio Cofferati, in grave difficoltà di ruolo, approfitta della battaglia e reagisce. 23 marzo 2002: Cofferati convoca una grande manifestazione al Circo Massimo, molta ritualità & folla oceanica. Nicola Piovani suona il piano sul palco.   
Sacconi
La manifestazione segna la fine del duello Cofferati-D’Amato. D’Amato fece marcia-indietro, e poi si ritirò dalla vita pubblica per tornare a fare l’imprenditore (di successo, peraltro). Insieme a D’Amato uscirono battuti anche Maurizio Sacconi, forzitalista di provenienza Psi, allora sottosegretario al welfare, e Stefano Parisi, all’epoca segretario generale di Confindustria e trait d’union tra D’Amato e Sacconi. Per la coppia ex Psi Parisi-Sacconi il referendum perduto doveva essere l’occasione per una definitiva resa dei conti con quella Cgil (dalla quale lo stesso Parisi proveniva) che era stata l’antagonista negli anni d’oro del Partito socialista quando Gianni De Michelis ministro del lavoro e Bettino Craxi presidente del consiglio avevano inferto il colpo più duro alla sinistra italiana, il decreto di San Valentino del 1984, la fine della scala mobile.
Marco Biagi
Anche Cofferati uscì malconcio dall’affaire articolo 18. Dopo aver vinto con parecchia gloria il primo round, si comportò con molto tatticismo nel successivo, il secondo referendum proposto dal velleitario Fausto Bertinotti per estendere lo statuto dei lavoratori alle aziende sopra i 15 dipendenti. Cofferati propose l’astensione. E irritò la sinistra movimentista tendenzialmente ostile all’establishment del Pds che aveva visto in Cofferati il possibile leader.
Infine uscì malconcio tutto il mondo riformista italiano e in generale il nostro modo di concepire la dialettica sociale e politica. Tra il referendum del 2001 e quello del 2003, un gruppo di estremisti fanatici che avevano dato vita a una nuova filiazione delle brigate rosse uccisero Marco Biagi, il giuslavorista che stava lavorando alla riforma del mercato del lavoro e che aveva sostenuto le ragioni degli anti-articolo 18. La sua morte resta ancora un punto estremamente delicato nei rapporti tra chi si occupa di quei temi. Alla Cgil fu rimproverato di aver fatto di Biagi un nemico e non un avversario, e di non aver capito il clima di ferocia, lo stessa che tre anni prima aveva portato all’uccisione sempre per mano delle nuove Br di un altro giuslavorista consulente del ministro del lavoro dell’epoca, Massimo D’Antona. Dopo la morte di Biagi si dimise il ministro degli interni, Claudio Scajola per una gaffe sul conto di Biagi. In generale la sgradevole sensazione rimasta come sospesa dopo quell’assassinio è che in Italia le riforme del lavoro conservino radicatamene un elemento che assomiglia al tabù.
Massimo D'Antona
A distanza di dieci anni si riprongono gli stessi temi (il completamento della riforma del mercato del lavoro, la dualità tra inclusi ed esclusi), quasi gli stessi schieramenti e gli identici riflessi automatici. In fondo – nonostante il 95 per cento delle aziende italiane non ne sia interessato perché sotto i 15 dipendenti e nelle aziende in cui può essere applicato (il 5 per cento del totale) le ristrutturazioni del personale si fanno sempre con il consenso sindacale – l’articolo 18 è sempre un mobile ingombrante. 
  
Twitter  @MarcoFerrante