giovedì 1 novembre 2012

Una cosa di Gae Aulenti

In quella magia inventiva che furono le grandi lampade degli anni '60, Gae Aulenti mise la sua impronta con la Pipistrello. Disegnata nel 1965 per Martinelli Luce che ancora la produce, diventò presto un segno grafico del design internazionale di cinque decenni, ininterrottamente. La scheda tecnica recita: 
"LAMPADA DA TAVOLO O DA TERRA A LUCE DIFFUSA, REGOLABILE IN ALTEZZA CON MOVIMENTO TELESCOPICO.
DIFFUSORE IN METACRILATO opal bianco. TELESCOPIO IN ACCIAIO INOX. BASE E POMELLO IN METALLO VERNICIATO NEI COLORI BIANCO, TESTA DI MORO, ROSSO PORPORA E ALLUMINIO SATINATO".
L'altezza può essere regolata tra i 66 e gli 86 centimetri. Originariamente era disponibile solo in bianco e testa di moro, forse la versione più bella. Poi sono venuti gli altri colori. In realtà più che un pipistrello (per via della forma del diffusore), richiama un fiore, con i petali opalini e il gambo conico. 
Phaidon Design Classic non la include nei 999 oggetti più rappresentativi della storia del design; e tra le creazioni della Aulenti preferisce due oggetti disegnati per Fontanarte nel 1980, la lampada Parola e il Tavolo con ruote. Ma la Pipistrello – insieme forse a un'altra lampada disegnata per Martinelli, la Ruspa – ha una personalità più spiccata e una forza più domestica, in un certo senso, a cui deve il suo status iconico. Fa parte delle collezioni permanenti del Moma, del Metropolitan Museum of Art, e del Museum des Arts Decorative di Montreal.       
  

domenica 28 ottobre 2012

Secondo CDB per vincere il ns eterno buddenbrookismo ci serve Steve Jobs

Da Il Messaggero del 26 ottobre 2012

Bisognerà chiedere a Pierluigi Bersani e a Matteo Renzi che cosa pensano delle idee di Carlo De Benedetti sul ruolo della politica in una drammatica stagione di crisi economica e sociale. Nella tradizione – da lui sempre nutrita – dell’imprenditore democratico che prende posizione, che esprime i suoi punti di vista e partecipa al dibattito pubblico, CDB pubblica “Mettersi in gioco” (Einaudi, pagg. 78, euro 10,00) un pamphlet in uscita in questi giorni che già dal titolo definisce una linea: solo accettando la sfida del cambiamento, l’Europa può provare ad arginare lo slittamento della sua posizione negli equilibri geo-economici in evoluzione. Secondo De Benedetti la crisi finanziaria (e le sue conseguenze) da cui non siamo ancora usciti “è l’epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i paesi nuovi, che rischia di implicare una marginalizzazione dell’Europa e della sua economia”. Dunque è una crisi che scuote le fondamenta del nostro modo di vivere perché ci rivela che siamo strutturalmente più poveri. Questo vale per tutto l’occidente. Uno dei segni del cambiamento profondo del nostro assetto sociale è l’aumento della disuguaglianza economica: si concentra la ricchezza nelle mani di un numero di individui sempre minore, e aumenta il divario tra i redditi. Paul Kennedy se ne servì per descrivere il declino della società americana (e De Benedetti lo cita); l’apertura della forbice dei redditi è una delle più forti ragioni di autocritica da parte di Robert Reich, già segretario al lavoro di Bill Clinton, nel suo Supercapitalismo, molto amato anche in Italia dai quei riformisti critici della Terza Via.
De Benedetti dice che questa divaricazione tra ricchi e poveri porterà a una lotta forsennata e globale per il lavoro. Mancano all’appello 1,8 miliardi di posti di lavoro nel mondo. I paesi che non sapranno dare risposte al problema del lavoro falliranno. La principale risorsa su cui dovremmo cercare di investire è l’innovazione. Un terreno su cui l’Italia è in netto ritardo rispetto al resto dei paesi avanzati. “Oggi solo il 30% delle medie imprese italiane opera in settori ad alta e media tecnologia, contro il 42,6% di quelle tedesche. La spesa per ricerca e sviluppo in Italia si attesta all’1,2% del Pil contro il 2,3% della media dei paesi Ocse”.
Questa è l’analisi. La proposta per uscire dalla crisi si articola su quattro punti. Per farcela abbiamo bisogno di buone imprese, giovani, opinioni pubbliche informate e una politica che funzioni. Sui giovani, De Benedetti nota un aspetto molto interessante e del tutto trascurato dal dibattito pubblico: la cancellazione di una generazione di alcuni milioni di persone da qualunque ragionamento sul loro destino avviene “nell’assoluta indifferenza di ogni organizzazione di rappresentanza”, partiti, sindacati e – aggiungiamo – anche da parte di qualunque nuovo soggetto che abbia in mente di affacciarsi sul mercato della rappresentanza politica. Sulla politica e sull’informazione, il pamphlettista si comporta come ci si aspetterebbe dal grande editore con passione politica: il futuro è la rete, ma il giornalismo è indispensabile per governare il traffico, per dare un’intonazione al rumore di fondo. Mentre la politica è chiamata all’unico compito sul quale può essere misurata: dare una direzione alla sua comunità. Oggi è questo il versante più fragile su cui queste classi dirigenti in transizione si misurano, in una generale inadeguatezza, nel tentativo di ridefinire rapporti di forza incerti tra la Politica e l’Economia (per esempio la mancata riforma del sistema finanziario internazionale) e conflitti generazionali. Da notare che rispetto all’attualità l’editore di Repubblica non entra nel merito della nuova crisi dei partiti e delle divisioni a sinistra. Si limita a dire che non serve a nessuno una politica che sappia solo discutere di primarie e leggi elettorali.
In fondo però – nonostante alla politica intesa come “regina smarrita” sia dedicata la conclusione del pamphlet – è il ruolo dell’imprenditore, che resta al centro delle riflessioni su quello che può cambiare. CDB è un uomo che rispetta la funzione della politica, ma che in cuor suo crede nel primato della società. Ha una visione borghese classica dell’imprenditore, cita Musil e la sua creatura Paul Arnheim – che piace anche a Giulio Tremonti e Guido Rossi – cita Shumpeter e osserva che nel tragitto simbolico che va dai Buddenbrook a Steve Jobs c’è l’essenza della capacità dell’imprenditore borghese d’occidente di ricominciare daccapo e trasformare se stesso tutte le volte, passandosi il testimone della forza creativa. Forse andrà così ancora una volta, ma questa volta sarà più difficile.

venerdì 7 settembre 2012

Il tormentatissimo mignolo sinistro di Maria Sharapova

In fondo c'è sempre qualcosa che rende umani gli umani

martedì 10 luglio 2012

La spending review è un'occasione per riflettere su come va cambiato il welfare


La spending review appena avviata dal governo Monti sarà una manovra correttiva occulta come paventa Pierluigi Bersani? Oppure potrebbe diventare il primo atto di una resa dei conti franca con il nostro welfare? Lo stato sociale così come siamo stati abituati a pensarlo nel dopoguerra – una macchina che produce spesa con pochi limiti – non è più possibile al giorno d’oggi.
“Certamente il welfare va rivisto, con tutto il suo impianto culturale – dice Stefano Liebman, professore di diritto del Lavoro alla Bocconi – Ma intanto la spending review interviene su una cosa che precede qualunque riforma possibile, e cioè l’indiscutibile inefficienza della nostra macchina pubblica”.







































Gli stati dell’eurozona erogano spesa pubblica per quasi 5.000 miliardi di euro ogni anno. L’Italia spende 800 miliardi. Una parte di questo denaro è debito, cioè soldi già spesi. Il debito pubblico cumulato dell’eurozona (17 paesi) è pari a circa 8.200 miliardi, l’87,4 per cento del pil complessivo dell’area. Mentre il debito cumulato dei 27 paesi dell’Unione europea è di 10.300 miliardi di euro, l’82,2 per cento del pil dei 27. Il debito è concentrato soprattutto nei grandi paesi: La Germania sopra i 2.000 miliardi, l’Italia verso i 2.000, la Francia quasi 1.700, il Regno Unito, quasi 1.500 miliardi.
A che cosa è servito questo debito? Soprattutto a pagare stipendi, finanziare i sistemi pensionistici e acquistare beni e servizi per erogare prestazioni a favore dei cittadini. Una parte di questi soldi serve anche a pagare le spese per gli interessi sul debito pre-esistente che mano mano si accumula. Quella per gli interessi è una cifra molto vicina al denaro destinato a finanziare gli investimenti pubblici. Nei paesi dell’eurozona nel 2009 il 5,6 per cento della spesa pubblica è servita alla spesa per interessi e il 5,5 agli investimenti. L’aggregato principale resta quello delle prestazioni sociali (pensioni in primis) che assorbe intorno al 46 per cento della spesa.
Ma nel corso degli anni la spesa del welfare è cambiata. Diamo un’occhiata all’Italia. Dal 1951 al 2010 la nostra spesa pubblica è passata dal 23,6 per cento del pil al 51,2 per cento del Pil. Intanto – come spiega il rapporto Giarda – si è ridotto il peso delle voci tradizionali dell’intervento pubblico, la fornitura di servizi pubblici, le spese di sostegno alle famiglie e la spesa per investimenti. Complessivamente queste tre componenti erano l’81,9 per cento della spesa nel 1951, nel 2010 sono diventate il 57%. Nel frattempo è cresciuta invece la spesa pensionistica. Era il 10% del totale della spesa nel 1951, oggi è il 30%.
Anche la spesa sanitaria si è ridotta e anche come abbiamo visto in questi giorni è una delle voci su cui si interviene più spesso. Osserva Roberto Artoni, professore di scienza delle finanze alla Bocconi e grande esperto di welfare: “La sanità italiana non costa molto. Negli anni semmai si è cercato di renderla inefficiente, ma non è stato inventato un sistema universalistico altrettanto efficace del sistema sanitario pubblico. Direi lo stesso del sistema pensionistico – magari utilizzato impropriamente, penso per esempio ai prepensionamenti utilizzati sostanzialmente come forme di sostegno implicito alla disoccupazione. Ma non esiste un sistema pensionistico di mercato che abbia dato buone prove”.
Certo, è un sistema previdenziale pubblico che è cresciuto con una serie di incongruità, sprechi, spesso ingiustizie. Un esempio per tutti: i baby pensionati del settore pubblico, cioè coloro i quali sono andati in pensione con meno di vent’anni di contributi (senza un vincolo d’età minima per il pensionamento). Sono oltre mezzo milione. Sono il 2% del totale dei pensionati, ma costano più del 4% della spesa pensionistica (nove miliardi e mezzo l’anno su un totale di 240 miliardi). Si calcola che riceveranno in assegni pensionistici mediamente tre volte quanto hanno versato in contributi.
Osserva Liebman: “Il problema principale è che il welfare novecentesco è costruito su un modello di lavoro stabile. Noi dobbiamo costruire un sistema che tuteli il lavoratore nelle difficoltà del mercato. Non è detto che un meccanismo di tutele per i disoccupati temporanei sia meno caro del sistema che crea i baby-pensionati. L’obiettivo di un nuovo welfare dovrebbe essere: non creare sacche di iniquità. Ci sono paesi in cui il welfare è fallito ben prima della crisi del taylorismo, è fallito quando è diventato clientelismo come in Italia e in Grecia”.
Pur con molte iniquità redistributive abbiamo potuto sostenere un welfare invasivo. Ma nel frattempo è cambiato qualcosa. È finita la guerra fredda, innanzitutto. Il Pil del mondo ha trovato nuovi equilibri. Un pezzo si è spostato in Asia. Poi è arrivata la grande crisi.  Le cause di questa grande crisi sono molte e interconnesse. Ma insieme agli effetti della crisi finanziaria innescata dai subprime e insieme alla recessione (cioè la mancata crescita), il debito pubblico è diventata una delle cause della crisi europea. Crisi fiscale, monetaria e politica. “Così – dice Alberto Giovannini, già professore di politica economica a Columbia University – è chiaro che questo tipo di stato sociale non possiamo più permettercelo, debito compreso”. Non basterebbe ridurre il perimetro d’azione del welfare? “Il nostro sistema di welfare è figlio di una crescita economica e demografica del dopoguerra che oggi non c’è più. E non possiamo più permetterci cose troppo ambiziose. I rimedi, sistemi di redistribuzione devono fare i conti con la realtà. Faccio un esempio: con le novità tecnologiche, con internet, il vecchio servizio postale universalistico è ancora necessario? C’è un elemento culturale con cui fare i conti. Lo stato è stato il soggetto dominante del ‘900. Oggi però forse sarebbe più utile e conveniente per riequilibrare i pesi lasciare allo stato solo quello che la società e il mercato non riescono a fare”.
Il welfare nasce alla fine del XIX secolo, ma in tutta la sua forza persuasiva e incantatrice è una struttura novecentesca, rafforzatasi per contrastare gli effetti della grande crisi del ’29. Strano, ma la grande crisi nata nel 2007 spinge il ragionamento nella direzione opposta, verso la riduzione del Welfare. È’ un paradosso? Risponde ancora Giovannini: “No non è un paradosso. È che per sessant’anni abbiamo esagerato e tutto va ridimensionato. La grande macchina che abbiamo costruito per erogare servizi mangia un pezzo della spesa pubblica solo per nutrire se stessa. Per sopravvivere”. 
Naturalmente visto dal paese in cui una siringa ha costi diversi asseconda della latitudine è tutto più drammatico e pessimistico. Ci sono stati sociali più efficienti e più equilibrati. Per esempio, la Finlandia – dove lo stato sociale funziona – spende in percentuale più dell’Italia in stipendi pubblici (intorno al 27% per cento, contro il 22 italiano), più in spesa per l’acquisto di beni e servizi e meno per le prestazioni sociali. Ma questo riguarda le scelte politiche dei singoli stati, la composizione sociale, la cultura della spesa pubblica. Per restare al caso finlandese il rapporto tra debito e pil è del 47,2 per cento contro il 120 per cento dell’Italia.
In generale, però, ci sono elementi che accomunano in paesi in questa fase. Per esempio tutte le manovre correttive nei paesi europei hanno toccato inevitabilmente il pubblico impiego. Si è molto parlato dei rigidi tagli greci, ma in tutti i paesi – dall’Olanda alla Germania fino all’Irlanda, dal Regno Unito alla Spagna – i costi del pubblico impiego sono sottoposti a una revisione. In Italia c’è un disegno di legge delega che riguarda la difesa e che va in una direzione molto chiara, 40.000 militari in meno nei prossimi dieci anni (conseguenza peraltro tardiva della riforma del modello di difesa di 12 anni fa). In generale si comincia a parlare seriamente di una riduzione tra il 5 e l’8 per cento della massa di dipendenti pubblici. C’è chi teme che questo movimento sul pubblico impiego sia in parte oggetto di un pregiudizio e che possa dare vita a una specie di individuazione di una categoria come capro espiatorio. I dipendenti pubblici che pagano la decadenza del welfare. Liebman prova a razionalizzare: “Nel settore privato, i dipendenti scelti dall’imprenditore sono esattamente quelli che gli servono. Nel settore pubblico siamo soggetti a un regime più largo. Inoltre da noi il pubblico impiego è diventato anche una forma di ammortizzatore sociale e – come in Grecia – una forma di aggregazione del consenso. In Olanda i dipendenti pubblici sono forse più del necessario, ma forniscono un servizio eccellente. Ma se nasce l’esigenza di contenere i costi, anche lì si cerca di tagliare”. Il pubblico impiego da noi è diventato un simbolo perché è stato oggetto di eccessi e di irresponsabilità totale. Dice Giovannini: “Il punto è che la regione Sicilia non può avere lo stesso numero di dipendenti di Downing Street”. Non è solo questione di spending review, evidentemente. La spesa pubblica – generata dalle imposte e dai contributi di tutti – non dovrebbe mai dare la sensazione di essere iniqua.

Il Messaggero, 8 luglio

venerdì 15 giugno 2012

Quali sono le voci della spesa pubblica che si possono tagliare. Una tabella con gli 800 miliardi del 2010 suddivisi per grandi aggregati


Questi sono i macro-aggregati della spesa pubblica nel 2010 secondo il rapporto Giarda dell'inizio di quest'anno (la tabella è stata elaborata dalla redazione del programma "L'aria che tira"). È evidente che ci sono margini di manovra nel grande aggregato dei consumi pubblici: 170 miliardi di euro di stipendi destinati al personale pubblico e 160 miliardi di acquisti per beni e servizi (peraltro cresciuti nel 2011). In prospettiva anche la voce pensioni potrebbe essere aggiustata cercando di colpire le maxi-pensioni, i cumuli ingiustificati e i privilegi fondati sui cosiddetti diritti acquisiti (siamo sicuri per esempio che una pensione baby sia una fattispecie da tutelare?). Per il momento non è davvero chiaro come si stia muovendo Enrico Bondi. C'è un rischio, e cioè che l'azione di contenimento della spesa e di rimozione degli sprechi non incida su processi strutturali, ma su una chiusura temporanea dei rubinetti, com'è già successo altre volte. Lo vedremo nei prossimi mesi. 


sabato 19 maggio 2012

LCdM e (entro settembre) la fisionomia dell'offerta politica moderata

Questione Montezemolo cresce. Qui Salvatore Merlo sul Foglio spiega i rapporti tra LCdM e il Cav., inseguimenti, annusamenti, corteggiamenti, disismulazioni. Oggi, Pigi Battista sul Corriere gli dice da un fronte amico: Forza Luca, se devi uscire allo scoperto, fallo subito. Incognite: innanzitutto la tenuta dell'intesa con Berlusconi; in secondo luogo le resistenze di un pezzo dell'apparato pidiellino (soprattutto ex forzisti) che è stato per anni ostile a Montezemolo e che oggi deve comunque come minimo dare la sensazione di difendere il ruolo di Alfano; resterebbero sullo sfondo il problema Passera da integrare nel progetto; e – infine – la posizione di Casini che oggi dice: non rinuncio alle mani libere. 
Sarà un'estate di movimento, entro settembre l'offerta politica moderata dovrà per forza darsi una fisionomia. 

mercoledì 16 maggio 2012

giovedì 10 maggio 2012

Tasse e rivoluzioni (e qualche film), di Rico Capone





martedì 8 maggio 2012

Ritratto. Perché Agnelli ha vinto lo scudetto

Pubblicato da Panorama il 2 novembre dell'anno scorso. È un profilo del presidente della Juventus. Si spiega perchè ha vinto lo scudetto e perché la questione Del Piero ha preso già all'inizio della stagione la piega degli addii.


Andrea Agnelli, 37 anni, presidente della Juventus, protagonista di questa prima parte del campionato, si è ritrovato al centro delle polemiche per  il caso Alessandro Del Piero, per aver ricordato che il capitano è all’ultima stagione. Il popolo juventino è un po’ confuso. Considera Agnelli il leader della riscossa anti-interista, ma il capitano è la bandiera. Striscia la notizia ha intervistato Alex, che ha detto: “di solito non si fa così”.
In realtà tutto era noto. Alla firma del contratto entrambe le parti avevano spiegato: questo è l’ultimo. Una fonte interessante, cioè il sito non ostile al capitano sin dal titolo – uccellinodidelpiero.com – minimizza. Agnelli aveva solo salutato il capitano davanti all’assemblea della Juve. Ma nel mondo dei tifosi più informati, dei blogger d’area, degli juventinologhi, l’interpretazione maggioritaria è la seguente. Agnelli ne ha sempre riconosciuto i meriti sportivi, ma è guardingo nei confronti del capitano perché gli interessa innanzitutto la tenuta della squadra e dello spogliatoio. Del Piero, ragazzo intelligente, è un attento gestore del suo ruolo dentro la Juve. Con modi felpati, accorti, cardinalizi, con una certa educata spietatezza in tutti questi anni ha saputo tutelare se stesso e la sua leadership dentro lo spogliatoio. Agnelli ha in mente un modello di gestione mutuato dal passato. Proprietà forte, management che comanda, rapporto di fiducia con l’allenatore, connessione con un popolo di dodici milioni di tifosi. I giocatori, invece, fanno i giocatori. Nelle grandi società è sempre stato così. “Le stelle non sarebbero stelle senza la squadra”, ha detto a novembre del 2010.
I rapporti con Del Piero sono in linea con il metodo degli ultimi mesi. Tenere la tifoseria, innanzitutto restituendole l’orgoglio dei 29 scudetti (prendersela con i detestati Moratti è servito) e preservare l’allenatore da pressioni improprie.
Figlio di Umberto, presidente della Juventus da un anno e mezzo, AA si è sempre comportato come una persona disponibile al combattimento. Per farsi un’idea dell’indole, un dettaglio: sulla pavimentazione intorno al nuovo stadio sono state sovrimpresse cinquanta stelle dedicate ad altrettanti campioni juventini di tutti i tempi. I tifosi possono comprare uno spazio nella stella per incidere il loro nome. Agnelli ha scelto per sé Paolo Montero, simbolo della Juve da battaglia, 4 scudetti e l’Intercontinentale.
Questo spirito lo ha tirato fuori nello scontro con l’Inter, e anche nella sua vita precalcistica. Nel 2005, per esempio, scelse una strada abbastanza solitaria nella sua famiglia. Si dichiarò contrario al cosiddetto equity swap, l’operazione finanziaria che neutralizzava l’ingresso delle banche nel capitale della Fiat e conservava la famiglia Agnelli-Elkann sopra la soglia del 30 per cento nell’azionariato. Lo disse in un’intervista al Foglio. Ne nacque una freddezza tra il ramo Elkann e gli eredi di Umberto, in cui si rifletteva – in una dimensione più esplicita, meno mitica e meno letteraria – lo strascico dei difficili rapporti che in vita avevano avuto Gianni e Umberto, i quali si volevano molto bene, ma erano separati da quattordici anni di età, in una relazione simile a quella di un padre e di un figlio: per esempio, fu Gianni a regalare il primo motorino a Umberto. Il dissidio del 2005 si è ricomposto lentamente, fino all’epilogo un po’ simbolico dell’anno scorso. Il completamento del pieno ricambio generazionale nella prima famiglia del capitalismo italiano: mentre John Elkann diventava presidente della Fiat, chiudendo il processo di successione a cui pensava Gianni, AA andava alla presidenza della Juventus. 
È il quarto presidente Agnelli. Prima di lui il nonno Edoardo, inventore dello stile Juve. Poi lo zio Gianni, e infine suo padre, presidente della prima stella, dal 1955 al 1962. Umberto riprenderà le redini negli anni 90, quando da capo delle attività finanziarie di famiglia – insieme a Moggi, a Giraudo e Bettega, la molto discussa triade – costruirà la squadra delle tre finali consecutive di Champions (una vinta) e della vittoria in Intercontinentale, forse la più forte Juventus di sempre. 
Andrea aveva un rapporto forte con il padre: educazione borghese, senso del dovere, disciplina. Una volta raccontò che siccome a casa sua si andava a tavola alle 19.45, lui aveva diritto a una franchigia di 15 minuti ma doveva telefonare entro 5 minuti dalla scadenza, nel caso in cui non facesse in tempo ad arrivare. Un’altra volta ha spiegato che Umberto aveva insegnato ai figli a esprimere sempre e con franchezza la propria opinione.
A cavallo tra i ventitre e i ventinove anni, ha perduto il fratello maggiore, Giovanni Alberto, morto di tumore nel dicembre ‘97 e suo padre, proprio mentre – nel pendolo degli equilibri di casa Agnelli – aveva avviato l’azione di rilancio della Fiat di cui era diventato presidente solo alla fine. “Ti prende un senso di impotenza”, disse Andrea in una intervista al Sole 24 Ore.
Nel complesso reticolo famigliare, è l’unico maschio a chiamarsi Agnelli (ha una figlia nata dal matrimonio con Emma Winter, aspettano un bambino in arrivo a dicembre). Rappresenta un ramo famigliare con una consistenza paragonabile a quella della precedente generazione. Una quota di oltre il 10 per cento nell’accomandita, che controlla a cascata il gruppo industriale, e un notevole patrimonio personale.
Ha un fondo, Lamse, con cui ha fatto investimenti in finanza, private equità, energia, e anche nell’editoria. Stava per entrare nell’avventura di Lettera 43 con Paolo Madron, poi non se fece nulla (curiosità, in Lettera 43 c’è un giovane Moratti, Maurizio Angelo). Nell’editoria AA è presente con Michele Dalai e Davide Dileo, quello dei Subsonica. Hanno fondato insieme Add, la casa editrice che in Italia ha pubblicato il pamphlet bestseller “Indignatevi” di Stephane Hessel, e il cui eclettico catalogo va da Jovanotti a Scalfaro&Caselli fino Pavel Nedved, consigliere d’amministrazione bianconero e – tra memorie e auspici – ultimo pallone d’oro juventino. 

@MarcoFerrante

lunedì 7 maggio 2012

persone e fatti di questo w-e


1. Declino di Carlà. Anche se non si sa mai.
2. Arriva la Valérie, che già frivoleggia da sinistra, ponendo il problema del trasferimento all'Eliseo non già come premio alle ambizioni e come simbolo del potere, ma come imperativo logistico: andremo a vivere all'Eliseo (tragedia!) perché se no, l'autorità di polizia sarebbe costretta a transennare la strada dove oggi abitiamo. Dunque grandi promesse di luoghi comuni, però anche lei è piuttosto fascinosa.
3. Ascesa di Andrea Agnelli, vincitore di uno scudetto inatteso e leader di 36 anni.
4. Il caso Del Piero (caso romanzesco, ok, ma anche un po' noioso).
5. Il caso Allegri, noiosissimo.
6. I rom a Pescara.
7. Alba Dorata in Grecia (con l'accessorio Putin).
8. Si attendono i risultati delle amministrative.

mercoledì 2 maggio 2012

Breve profilo di Enrico Bondi, che fu scoperto da Romiti (ma Romiti non ne parla nel suo libro con Madron)


Il Messaggero, 1 maggio

Enrico Bondi è un tecnico persino per i tecnici. Chimico di formazione, è un uomo dei numeri. Ordinato, tenace, risanatore, perbene. Nella sua lunga storia professionale due sono le operazioni che ne hanno decretato la fama: il risanamento della Montedison che in seguito al dissolvimento dell’impero dei Ferruzzi prese nel 1992 a 10 lire ad azione e lasciò a 5.500 lire e il salvataggio della Parmalat, dopo l’estromissione dei Tanzi. Ma è passato da molti altri luoghi del potere economico. Dopo avere lasciato Montedison, è transitato in Telecom e nel gruppo Ligresti. In entrambe le occasioni furono passaggi rapidi. In Telecom il mandato era quello di accompagnare l’azienda che usciva dalla stagione di Roberto Colaninno nella gestione di Marco Tronchetti Provera. Ma con Tronchetti le cose non andarono benissimo, perché Bondi era abituato ad avere carta bianca, e Tronchetti voleva fare il capo azienda. Lo stesso accade in Premafin. Non si intese con Salvatore Ligresti. Qualcuno dice per le ragioni emerse successivamente, e cioè l’eccesso di intimità finanziaria tra la famiglia e l’azienda.
Bondi è uno di quelli che crede nell’esempio. Dicono che quando arriva in un posto nuovo sceglie un ufficio non appariscente. In Telecom, raccontarono le cronache, rinunciò all’auto blu. Prese una Punto e andò a dormire in un residence a tre stelle. In Montedison introdusse il riciclaggio della carta per le fotocopie, all’epoca una specie di novità segnaletica per dire “tempi nuovi”. Precedenti per il suo nuovo mestiere di risanatore di Stato.
Primo impiego in Montecatini alla fine degli anni ’50 (con l’esperienza alla guida della Montedison quasi come ritorno alle origini 35 anni dopo). Poi dopo alcune esperienze, una in Snia, arriva un passaggio nel gruppo Fiat: alla Gilardini l’azienda di famiglia che era stata ceduta al gruppo torinese da Carlo De Benedetti in cambio del 5% di Fiat quando aveva accettato di diventarne amministratore delegato (alla fine dei cento giorni CDB vendette le azioni Fiat e lasciò la Gilardini al Lingotto). Secondo le ricostruzioni è in quella fase che entra in contatto con Cesare Romiti e di rimbalzo con Enrico Cuccia e il mondo Mediobanca a cui resterà legato (piccola curiosità: Romiti non parla di Bondi in “Storia segreta del capitalismo italiano”, il libro intervista con Paolo Madron appena uscito per Longanesi). Guido Rossi, presidente della società da risanare, non lo amava e sottolineava le somiglianze caratteriali con Romiti.
Nella battaglia per Montedison, Bondi si schiera con Maranghi a difesa dell’azienda dall’Opa di Fiat e dei francesi, ma lo fa con diplomazia. Alla fine spunta due rilanci da parte dei compratori. Ma senza alienarsi il rapporto con gli Agnelli. Tanto che a un certo punto si pensa all’ipotesi di Bondi alla guida della Fiat nella fase più difficile della vita del gruppo torinese. Ma la cosa saltò.
Poi dopo l’esperienza in Telecom e dai Ligresti, arriva la Parmalat.
Operazione complicatissima. Non solo per l’esposizione del gruppo, ma per il coinvolgimento delle banche internazionali. Bondi riesce a recuperare il denaro delle grandi banche con le cause e a guadagnarsi l’approvazione della grande stampa economica internazionale. E a tagliare i rami inutili, concentrando l’azienda sul suo core business, il latte. Ma in questa difficile azione di risanamento lui stesso sostiene di aver commesso un errore. Il 15 luglio del 2011 va all’Università Bocconi e in un convegno dice di non aver fatto abbastanza per assicurare lo sviluppo alla sua azienda, cioè di non avere saputo utilizzare 1,4 miliardi di euro che teneva in pancia per far crescere l’azienda con un’acquisizione di mercato e di aver subito l’attacco dei francesi di Lactalis (ancora loro, i francesi, dopo Edf).
Un’ammissione franca. Anche perché – dice chi lo conosce – è uno che parla poco, riluttanza che dovrà superare per spiegare e sostenere il piano di risparmi pubblici. C’è una florida aneddotica sul grande lavoratore nato ad Arezzo, che – come il suo scopritore Romiti – non prende stock-options; che, appassionato di scienze e di campagna, nella sua piccola azienda aretina, “Il matto”, produce olio che regala a chi gli è simpatico; che ogni anno allunga di una nuova voce (l’ultima era stata la chiamata al capezzale del San Raffaele di Don Verzè) il suo curriculum, ormai una specie di grafico della crisi di un pezzo del sistema imprenditoriale italiano.
Adesso Bondi si cimenterà con una cosa che non ha mai fatto. È la prima volta che ricoprirà un ruolo pubblico operativo. A suo tempo si parlò di lui per il risanamento di Alitalia, ogni tanto il suo nome è spuntato come ipotetico aggiustatore della Rai. Ipotesi mai realizzate. Oggi le condizioni sono cambiate. Sin dai tempi della Montedison, quando Monti era commissario europeo, ha ottimi rapporti con il presidente del Consiglio, anche personali (il figlio di Monti ha lavorato con lui in Parmalat), e anche buoni rapporti con Corrado Passera, Vittorio Grilli e Piero Giarda. Monti pensa che Bondi sia l’uomo giusto anche per la considerazione che si è guadagnato nel sistema finanziario internazionale. Certo resta un problema di fondo per il risanatore. È un manager da stato di crisi abituato ad assumere decisioni senza doverne rendere conto a un padrone momento per momento. I partiti che reggono la maggioranza sono azionisti con le loro difficoltà, ma comunque azionisti. E bisognerà ragionare con la politica.
Qualcuno gli ha già chiesto privatamente perché abbia accettato. Chi ha parlato con il neo commissario ritiene che abbia detto sì per tre ragioni, che sono le uniche che possono spingere a dire di sì un uomo di 78 anni che molto ha già fatto: il senso di sé; un certo spirito di servizio, cioè l’appartenza alla comunità; e la tipica suggestione della sfida – ma stavolta è molto più difficile – cimentarsi con la bestia da affamare, la spesa pubblica.

martedì 1 maggio 2012

Il tecnico dei tecnici dovrà combattere contro una magnolia

La sintesi su Enrico Bondi è: il tecnico dei tecnici. Punti di forza: Bondi è un uomo determinato, onesto, abituato a resistere ai condizionamenti. Punti di debolezza: il solito, affamare la bestia della spesa pubblica è politicamente molto difficile. Soprattutto in una situazione in cui il potere reale nell'amministrazione pubblica è nelle mani di una classe dirigente senza qualità e arroccata in privilegi seicenteschi. Resisteranno spezzoni dei partiti e la cupola che regge il pubblico impiego e il sistema statale, il cui simbolo è la grande – incolpevole e bellissima – magnolia che troneggia nel giardino del palazzo che ospita il Consiglio di Stato. 
Per qualche breve cenno sulla vita e le opere di Bondi, Il Messaggero di oggi.


sabato 18 febbraio 2012

Vent'anni dopo, una piccola fenomenologia di Craxi

Con Tangentopoli crolla la prima Repubblica. Bettino Craxi fu uno dei leader che aveva cercato di ammodernare il sistema istituzionale e il gioco politico. In 30 minuti, ecco quali sono gli elementi che segnarono il radicamento di Craxi nell'immaginario di sostenitori e avversari. 
Interviste a Pierluigi Battista, Paolo Cirino Pomicino, Giuliano Ferrara, Marino Bonaiuto, Stefano Rolando, Massimo De Angelis.



    

domenica 22 gennaio 2012

Art.18, la strana storia di un totem

Monti e Annunziata
Intervistato da Lucia Annunziata Mario Monti torna sull'articolo 18. No ai tabù, dice. 
Lo aveva già detto in una chiacchierata con Fabio Fazio, dicendo non è più tempo di simboli e che le riforme vanno fatte con pragmatismo. Ma l’articolo 18 ha ancora tutte le caratteristiche del simbolo (totem, Elsa Fornero dixit). Ecco una breve storia di questo strano oggetto normativo, uscita su Panorama Economy di due settimane fa. 
Fornero
Dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori si discute in Italia da quando la legge fu varata, 1970. E da sempre c’è chi che lo vuole cambiare, in senso estensivo o limitativo. Nel 1980 ci provò Democrazia Proletaria nel quadro di un’ipotesi di generale ripensamento dello statuto. Per tutti gli anni 90, l’articolo 18 fu per i datori di lavoro un simbolo dell’asimmetria normativa nelle imprese; e per i sindacati di un diritto inalienabile, una trincea.
Gino Giugni
Nella seconda metà del decennio, la Confindustria di Giorgio Fossa cominciò a chiedere più flessibilità. E l’art.18 fu utilizzato da un pezzo di centro-sinistra in piena terza via – tra Tony Blair, Bill Clinton, dalemismo, prodismo e Ulivo mondiale – come segnacolo del riformismo possibile, della modernizzazione del lavoro. Franco Debenedetti, presentò una proposta di legge che riprendendo un’idea di Pietro Ichino sostituiva una indennità economica al reintegro. Non se ne fece nulla.
Cofferati
Nel 2000 si celebrò un referendum abrogativo, ma non raggiunse il quorum. Per tre volte – 1982, 1998 e inizio 2001 – fu materia di sperimentazione, deroghe temporanee per neoassunti, interinali e socialmente utili.     
D'Amato
Poi, all’improvviso, diventò la causa di uno degli scontri più furibondi della storia delle relazioni industriali italiane. Antonio D’Amato vs Sergio Cofferati.
La storia è questa. Nel 2001, D’Amato diventa a sorpresa capo di Confindustria battendo sul filo di lana il candidato della Fiat Carlo Callieri. Ha un rapporto molto forte con Silvio Berlusconi, chiede al nuovo governo di centro-destra un’azione simbolica. L’articolo 18, e cioè il sì alla possibilità dell’imprenditore di non reintegrare il lavoratore dopo la decisione del giudice in una causa di lavoro per licenziamento senza giusta causa, ma di procedere con un indennizzo. La cosa, a dire la verità, non convince neanche il potere confindustriale. L’art. 18 riguarda solo le grandi imprese che però hanno sempre preferito trattare col sindacato. Ma la macchina di D’Amato è partita. La Cgil di Sergio Cofferati, in grave difficoltà di ruolo, approfitta della battaglia e reagisce. 23 marzo 2002: Cofferati convoca una grande manifestazione al Circo Massimo, molta ritualità & folla oceanica. Nicola Piovani suona il piano sul palco.   
Sacconi
La manifestazione segna la fine del duello Cofferati-D’Amato. D’Amato fece marcia-indietro, e poi si ritirò dalla vita pubblica per tornare a fare l’imprenditore (di successo, peraltro). Insieme a D’Amato uscirono battuti anche Maurizio Sacconi, forzitalista di provenienza Psi, allora sottosegretario al welfare, e Stefano Parisi, all’epoca segretario generale di Confindustria e trait d’union tra D’Amato e Sacconi. Per la coppia ex Psi Parisi-Sacconi il referendum perduto doveva essere l’occasione per una definitiva resa dei conti con quella Cgil (dalla quale lo stesso Parisi proveniva) che era stata l’antagonista negli anni d’oro del Partito socialista quando Gianni De Michelis ministro del lavoro e Bettino Craxi presidente del consiglio avevano inferto il colpo più duro alla sinistra italiana, il decreto di San Valentino del 1984, la fine della scala mobile.
Marco Biagi
Anche Cofferati uscì malconcio dall’affaire articolo 18. Dopo aver vinto con parecchia gloria il primo round, si comportò con molto tatticismo nel successivo, il secondo referendum proposto dal velleitario Fausto Bertinotti per estendere lo statuto dei lavoratori alle aziende sopra i 15 dipendenti. Cofferati propose l’astensione. E irritò la sinistra movimentista tendenzialmente ostile all’establishment del Pds che aveva visto in Cofferati il possibile leader.
Infine uscì malconcio tutto il mondo riformista italiano e in generale il nostro modo di concepire la dialettica sociale e politica. Tra il referendum del 2001 e quello del 2003, un gruppo di estremisti fanatici che avevano dato vita a una nuova filiazione delle brigate rosse uccisero Marco Biagi, il giuslavorista che stava lavorando alla riforma del mercato del lavoro e che aveva sostenuto le ragioni degli anti-articolo 18. La sua morte resta ancora un punto estremamente delicato nei rapporti tra chi si occupa di quei temi. Alla Cgil fu rimproverato di aver fatto di Biagi un nemico e non un avversario, e di non aver capito il clima di ferocia, lo stessa che tre anni prima aveva portato all’uccisione sempre per mano delle nuove Br di un altro giuslavorista consulente del ministro del lavoro dell’epoca, Massimo D’Antona. Dopo la morte di Biagi si dimise il ministro degli interni, Claudio Scajola per una gaffe sul conto di Biagi. In generale la sgradevole sensazione rimasta come sospesa dopo quell’assassinio è che in Italia le riforme del lavoro conservino radicatamene un elemento che assomiglia al tabù.
Massimo D'Antona
A distanza di dieci anni si riprongono gli stessi temi (il completamento della riforma del mercato del lavoro, la dualità tra inclusi ed esclusi), quasi gli stessi schieramenti e gli identici riflessi automatici. In fondo – nonostante il 95 per cento delle aziende italiane non ne sia interessato perché sotto i 15 dipendenti e nelle aziende in cui può essere applicato (il 5 per cento del totale) le ristrutturazioni del personale si fanno sempre con il consenso sindacale – l’articolo 18 è sempre un mobile ingombrante. 
  
Twitter  @MarcoFerrante