martedì 10 luglio 2012

La spending review è un'occasione per riflettere su come va cambiato il welfare


La spending review appena avviata dal governo Monti sarà una manovra correttiva occulta come paventa Pierluigi Bersani? Oppure potrebbe diventare il primo atto di una resa dei conti franca con il nostro welfare? Lo stato sociale così come siamo stati abituati a pensarlo nel dopoguerra – una macchina che produce spesa con pochi limiti – non è più possibile al giorno d’oggi.
“Certamente il welfare va rivisto, con tutto il suo impianto culturale – dice Stefano Liebman, professore di diritto del Lavoro alla Bocconi – Ma intanto la spending review interviene su una cosa che precede qualunque riforma possibile, e cioè l’indiscutibile inefficienza della nostra macchina pubblica”.







































Gli stati dell’eurozona erogano spesa pubblica per quasi 5.000 miliardi di euro ogni anno. L’Italia spende 800 miliardi. Una parte di questo denaro è debito, cioè soldi già spesi. Il debito pubblico cumulato dell’eurozona (17 paesi) è pari a circa 8.200 miliardi, l’87,4 per cento del pil complessivo dell’area. Mentre il debito cumulato dei 27 paesi dell’Unione europea è di 10.300 miliardi di euro, l’82,2 per cento del pil dei 27. Il debito è concentrato soprattutto nei grandi paesi: La Germania sopra i 2.000 miliardi, l’Italia verso i 2.000, la Francia quasi 1.700, il Regno Unito, quasi 1.500 miliardi.
A che cosa è servito questo debito? Soprattutto a pagare stipendi, finanziare i sistemi pensionistici e acquistare beni e servizi per erogare prestazioni a favore dei cittadini. Una parte di questi soldi serve anche a pagare le spese per gli interessi sul debito pre-esistente che mano mano si accumula. Quella per gli interessi è una cifra molto vicina al denaro destinato a finanziare gli investimenti pubblici. Nei paesi dell’eurozona nel 2009 il 5,6 per cento della spesa pubblica è servita alla spesa per interessi e il 5,5 agli investimenti. L’aggregato principale resta quello delle prestazioni sociali (pensioni in primis) che assorbe intorno al 46 per cento della spesa.
Ma nel corso degli anni la spesa del welfare è cambiata. Diamo un’occhiata all’Italia. Dal 1951 al 2010 la nostra spesa pubblica è passata dal 23,6 per cento del pil al 51,2 per cento del Pil. Intanto – come spiega il rapporto Giarda – si è ridotto il peso delle voci tradizionali dell’intervento pubblico, la fornitura di servizi pubblici, le spese di sostegno alle famiglie e la spesa per investimenti. Complessivamente queste tre componenti erano l’81,9 per cento della spesa nel 1951, nel 2010 sono diventate il 57%. Nel frattempo è cresciuta invece la spesa pensionistica. Era il 10% del totale della spesa nel 1951, oggi è il 30%.
Anche la spesa sanitaria si è ridotta e anche come abbiamo visto in questi giorni è una delle voci su cui si interviene più spesso. Osserva Roberto Artoni, professore di scienza delle finanze alla Bocconi e grande esperto di welfare: “La sanità italiana non costa molto. Negli anni semmai si è cercato di renderla inefficiente, ma non è stato inventato un sistema universalistico altrettanto efficace del sistema sanitario pubblico. Direi lo stesso del sistema pensionistico – magari utilizzato impropriamente, penso per esempio ai prepensionamenti utilizzati sostanzialmente come forme di sostegno implicito alla disoccupazione. Ma non esiste un sistema pensionistico di mercato che abbia dato buone prove”.
Certo, è un sistema previdenziale pubblico che è cresciuto con una serie di incongruità, sprechi, spesso ingiustizie. Un esempio per tutti: i baby pensionati del settore pubblico, cioè coloro i quali sono andati in pensione con meno di vent’anni di contributi (senza un vincolo d’età minima per il pensionamento). Sono oltre mezzo milione. Sono il 2% del totale dei pensionati, ma costano più del 4% della spesa pensionistica (nove miliardi e mezzo l’anno su un totale di 240 miliardi). Si calcola che riceveranno in assegni pensionistici mediamente tre volte quanto hanno versato in contributi.
Osserva Liebman: “Il problema principale è che il welfare novecentesco è costruito su un modello di lavoro stabile. Noi dobbiamo costruire un sistema che tuteli il lavoratore nelle difficoltà del mercato. Non è detto che un meccanismo di tutele per i disoccupati temporanei sia meno caro del sistema che crea i baby-pensionati. L’obiettivo di un nuovo welfare dovrebbe essere: non creare sacche di iniquità. Ci sono paesi in cui il welfare è fallito ben prima della crisi del taylorismo, è fallito quando è diventato clientelismo come in Italia e in Grecia”.
Pur con molte iniquità redistributive abbiamo potuto sostenere un welfare invasivo. Ma nel frattempo è cambiato qualcosa. È finita la guerra fredda, innanzitutto. Il Pil del mondo ha trovato nuovi equilibri. Un pezzo si è spostato in Asia. Poi è arrivata la grande crisi.  Le cause di questa grande crisi sono molte e interconnesse. Ma insieme agli effetti della crisi finanziaria innescata dai subprime e insieme alla recessione (cioè la mancata crescita), il debito pubblico è diventata una delle cause della crisi europea. Crisi fiscale, monetaria e politica. “Così – dice Alberto Giovannini, già professore di politica economica a Columbia University – è chiaro che questo tipo di stato sociale non possiamo più permettercelo, debito compreso”. Non basterebbe ridurre il perimetro d’azione del welfare? “Il nostro sistema di welfare è figlio di una crescita economica e demografica del dopoguerra che oggi non c’è più. E non possiamo più permetterci cose troppo ambiziose. I rimedi, sistemi di redistribuzione devono fare i conti con la realtà. Faccio un esempio: con le novità tecnologiche, con internet, il vecchio servizio postale universalistico è ancora necessario? C’è un elemento culturale con cui fare i conti. Lo stato è stato il soggetto dominante del ‘900. Oggi però forse sarebbe più utile e conveniente per riequilibrare i pesi lasciare allo stato solo quello che la società e il mercato non riescono a fare”.
Il welfare nasce alla fine del XIX secolo, ma in tutta la sua forza persuasiva e incantatrice è una struttura novecentesca, rafforzatasi per contrastare gli effetti della grande crisi del ’29. Strano, ma la grande crisi nata nel 2007 spinge il ragionamento nella direzione opposta, verso la riduzione del Welfare. È’ un paradosso? Risponde ancora Giovannini: “No non è un paradosso. È che per sessant’anni abbiamo esagerato e tutto va ridimensionato. La grande macchina che abbiamo costruito per erogare servizi mangia un pezzo della spesa pubblica solo per nutrire se stessa. Per sopravvivere”. 
Naturalmente visto dal paese in cui una siringa ha costi diversi asseconda della latitudine è tutto più drammatico e pessimistico. Ci sono stati sociali più efficienti e più equilibrati. Per esempio, la Finlandia – dove lo stato sociale funziona – spende in percentuale più dell’Italia in stipendi pubblici (intorno al 27% per cento, contro il 22 italiano), più in spesa per l’acquisto di beni e servizi e meno per le prestazioni sociali. Ma questo riguarda le scelte politiche dei singoli stati, la composizione sociale, la cultura della spesa pubblica. Per restare al caso finlandese il rapporto tra debito e pil è del 47,2 per cento contro il 120 per cento dell’Italia.
In generale, però, ci sono elementi che accomunano in paesi in questa fase. Per esempio tutte le manovre correttive nei paesi europei hanno toccato inevitabilmente il pubblico impiego. Si è molto parlato dei rigidi tagli greci, ma in tutti i paesi – dall’Olanda alla Germania fino all’Irlanda, dal Regno Unito alla Spagna – i costi del pubblico impiego sono sottoposti a una revisione. In Italia c’è un disegno di legge delega che riguarda la difesa e che va in una direzione molto chiara, 40.000 militari in meno nei prossimi dieci anni (conseguenza peraltro tardiva della riforma del modello di difesa di 12 anni fa). In generale si comincia a parlare seriamente di una riduzione tra il 5 e l’8 per cento della massa di dipendenti pubblici. C’è chi teme che questo movimento sul pubblico impiego sia in parte oggetto di un pregiudizio e che possa dare vita a una specie di individuazione di una categoria come capro espiatorio. I dipendenti pubblici che pagano la decadenza del welfare. Liebman prova a razionalizzare: “Nel settore privato, i dipendenti scelti dall’imprenditore sono esattamente quelli che gli servono. Nel settore pubblico siamo soggetti a un regime più largo. Inoltre da noi il pubblico impiego è diventato anche una forma di ammortizzatore sociale e – come in Grecia – una forma di aggregazione del consenso. In Olanda i dipendenti pubblici sono forse più del necessario, ma forniscono un servizio eccellente. Ma se nasce l’esigenza di contenere i costi, anche lì si cerca di tagliare”. Il pubblico impiego da noi è diventato un simbolo perché è stato oggetto di eccessi e di irresponsabilità totale. Dice Giovannini: “Il punto è che la regione Sicilia non può avere lo stesso numero di dipendenti di Downing Street”. Non è solo questione di spending review, evidentemente. La spesa pubblica – generata dalle imposte e dai contributi di tutti – non dovrebbe mai dare la sensazione di essere iniqua.

Il Messaggero, 8 luglio