venerdì 19 luglio 2013

Breve ritratto collettivo dei Ligresti (con il contributo decisivo di una galleria di immagini Google e della pagina Facebook di Jonella, che rende quasi superflue le informazioni dalle amiche e la mediazione di chi scrive).

Strano il destino di una famiglia arrestata in blocco. O per la vita che aveva condotto prima, o per il modo di indagarla dopo. Adesso sono i Ligrestos. Fino a due anni fa, erano stati una famiglia ricca, già sufficientemente discussa e abbastanza potente con un classico percorso geografico&sociale in una sola generazione: Salvatore è nato a Paternò, rapporti famigliari con i Virgillitto (i protettori di Raffaele Ursini di Liquigas) e con i La Russa. Il padre di Ignazio La Russa era stato amico e mentore di Salvatore. Nella generazione successiva, Ignazio aveva officiato la cerimonia civile nel giorno del matrimonio a Taormina di Giulia. Giulia Ligresti è la prova di un transito generazionale. Suo padre ostensivamente meridionale, a partire dal dettaglio della cravatte sotto la cintura, lei bionda, occhi azzurri, minuta, composta, capelli raccolti dietro le orecchie, sorrisi nel complesso molto misurati in una galleria di immagini Google che descrivono istantaneamente la sua dimensione pubblica. Il fisico sportivo, la vela, e – al posto di quelle cravatte – un marchio della moda, Gilli, fondato, e poi liquidato, per realizzare borse da lei stessa disegnate che non incontrarono un grande successo, ma che testimoniavano un certo interesse per lo stile.   
Gli osservatori neutrali descrivono questa transizione della bionda Giulia come una legittima aspirazione sociale: frequentare il mondo rivisitato delle case del Cappuccio, cioè i luoghi di quella che era stata la Milano borghese molto ricca e chiusa all’esterno, adesso che il Cappuccio e quelle case non sono più presidiati soltanto da quella borghesia.
Stampa meno favorevole per il figlio maschio Paolo, con interessi immobiliari in Svizzera, passione per le macchine sportive e per il Milan, il quale negli ultimi tempi si dichiarava più combattivo di suo padre, e fino all’ultimo diceva in giro che non si sarebbe fatto strappare il gruppo assicurativo dalle mani. Popolarità relativa anche per Jonella, la maggiore, la ragazza appassionata di equitazione. Quattro cavalli costati 6 milioni di euro nel 2008 a una società di famiglia. In un elenco di richieste avanzato a Mediobanca per trattare una buonuscita da Fonsai c’era anche la disponibilità di un albergo per le vacanze. Nel 2007, Jonella Ligresti fu protagonista di un caso molto bizzarro: una laurea honoris causa conferita dall’Università di Torino, revocata sei ore dopo dal ministro dell’Università Fabio Mussi per insussistenza dei requisiti. Certo, non fu colpa della laurenda, ma dell’ateneo che non tenne conto del preventivo parere contrario del ministro, il quale aveva cominciato una battaglia contro quei riconoscimenti.
Le amiche, invece, raccontano le ragazze Ligresti in un altro modo. Molti cavalli, ovviamente, e molto sport, ma anche molti aiuti per le Ong. Senz’altro abituate al benessere, forse un po’ viziate dai voli privati, ma dopotutto ok. “È chiaro che hanno sempre fatto solo e soltanto quello che diceva il padre”, è la tesi di chi le conosce. Come dire che dietro l’esibizione della managerialità di seconda generazione, c’era innanzitutto un genitore molto protettivo. Si vedrà nei prossimi giorni.
Ma la cosa interessante della storia dei Ligresti in queste ore (segno dei tempi moderni, e di come cambia il modo di raccontare le vite degli altri attraverso la mediazione di conoscenti, amici e avversari) è il fatto che una parte di questa storia – compresi i messaggi di sostegno e solidarietà degli amici (“coraggio non è da te cedere”, “Jo… Testa alta!!! Ti voglio bene!” – è su Facebook, un diario pubblico di quella che un tempo era la vita privata. E fa molta impressione nel giorno di provvedimento di restrizione, vedere passeggiate su dune desertiche (un post di Giulia: “in Libia una delle mie corse più belle!”), figli, alberi di natale, cavalli, compleanni, cotillon, massime (sul profilo di Jonella: “lascia che tutti sappiano che oggi sei più forte di ieri”). Sic transit gloria Facebook.

Marco Ferrante

Da Il Messaggero del 18 luglio 

giovedì 11 luglio 2013

Più che un Aventino è un Quarantotto, anzi un Ambaradan

Il Messaggero


Per un paio di millenni l’Aventino – come fatto politico – è stata una cosa seria. La Secessio plebis era la tecnica di lotta del colle plebeo Aventino contro il dirimpettaio colle patrizio Palatino. Una specie di serrata e di abbandono temporaneo della città cui cercò di trovare una soluzione Menenio Agrippa (utilità delle scuole medie) con la metafora del corpo umano per spiegare il funzionamento di una società. Sull’Aventino – come rifugio di parte plebea – cercò scampo dalle truppe consolari Caio Gracco, figlio di Cornelia, che poi morì sul Gianicolo.
L’Aventino, come luogo mitico della protesta, fu riesumato all’inizio del ventennio fascista nei giorni dell’omicidio Matteotti. L’opposizione, nonostante il parere contrario di Antonio Gramsci, abbandona l’aula e da lì inizia un processo che porterà al regime. L’Aventino diventa nell’immaginario il luogo di un errore politico, ma anche di una testimonianza anti-tirannica.
La questione aventiniana – come antefatto di un successivo luogo comune – tornò ad affacciarsi alla vita pubblica settant’anni dopo, alla fine della prima repubblica. Quando il leader dei radicali Marco Pannella lanciò l’iniziativa degli autoconvocati: 230 deputati, alcuni colpiti dagli avvisi di garanzia, si autoconvocano nel tentativo di salvare la giovane legislatura travolta dalla tempesta tangentopolista. Fu un Aventino di fatto. Era la primavera del 1993. Non dette i risultati sperati, e cominciò la seconda repubblica.
Due anni dopo si registrò un nuovo caso: una specie di arzigogolo fusionista in cui nei richiami dei protagonisti convissero l’Aventino e la Pallacorda, citazione pre-rivoluzionaria (francese) a cura del parlamentare di Forza Italia Pietro Di Muccio. Serviva per spiegare il senso di un’assemblea congiunta dei parlamentari del Polo per protestare contro il governo Dini. (Al capo di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini non piacque, invece, il riferimento all’Aventino che altri utilizzarono).
Dopodichè, negli anni, è stato tutto un ricorso formalistico all’espressione secessionista. Ogni occasione è stata buona per minacciare forme di aventinismo, come forma retorica, giornalistica, sempre un po’ vittimistica. Umberto Bossi se ne appropria nel 1996 quando ancora punta all’indipendenza della Padania. Successivamente, qualcuno schekera Aventino e Non expedit per commentare una dichiarazione del vescovo Alessandro Maggiolini, il quale, nel 1998 suggerisce ai deputati del Partito popolare di lasciare il governo di centro sinistra in difesa dei valori cattolici. Per tutti gli anni 2000 destra e sinistra quando sono all’opposizione prima o poi minacciano un Aventino. È un riflesso condizionato, una prova sottintesa del carattere frontista di un sistema bipolare che non ha imparato a dialogare, e dove l’opposizione si sente sempre alle strette.
L’ultima volta che la questione aveva preso piede era stato nella primavera del 2011. Volevano fare l’Aventino i deputati pidini che su proposta di Rosy Bindi spingevano per un atto eclatante di protesta contro la cosiddetta prescrizione breve. Bindi dette un’intervista a Repubblica per sostenere la tesi del grande gesto. Poi non se ne fece niente, la maggioranza si incartò e la prescrizione breve non passò. Con grande soddisfazione politica degli anti-aventinisti, memori dell’insegnamento di Gramsci.
L’anno dopo nel Pd ci fu un rigurgito aventiniano in occasione del dibattito al senato sulle riforme costituzionali. E di Aventino implicito in un certo senso si è parlato anche in occasione del congelamento dei voti M5S deciso da Bepe Grillo all’indomani delle elezioni generali di febbraio scorso non solo per la composizione del governo e per il Quirinale, ma anche per le presidenze di Camera e Senato. Occasione in cui erano stati quelli del Pdl a minacciare l’Aventino perché il centrosinistra aveva votato presidenti non condivisi dall’opposizione.
Così, Aventino è ormai un luogo comune. E siccome, inoltre, di solito non dà risultati – se non cattivi – nel nostro immaginario il suo significato rischia di trasformarsi sempre di più in altre espressioni figurate. Perché nel lessico politico italiano l’Aventino è sempre più simile a un Quarantotto (nel senso di una grande confusione) a una Caporetto (sconfitta evitabile) o – peggio del peggio – a un’Ambaradan (sconfitta e grande confusione). 

Marco Ferrante





sabato 18 maggio 2013

Piace a Stiglitz, a Krugman, all'Economist, al Fmi, e gli europei ne muoiono di invidia. È la Abenomics, il superpiano economico del primo ministro giapponese Shinzo Abe che sta proiettando il Pil giapponese 2013 sopra il 3,5%


Il primo risultato della Abenomics, la spettacolare – quanto a mezzi impiegati – ricetta di politica economica del primo ministro giapponese Shinzo Abe è la conquista di una voce su Wikipedia. Trenta righe che illustrano la nuova strategia espansiva di Tokyo. Un segno della popolaritá immediata ottenuta dal piano Abe, varato cinque mesi fa, ma anche un segno di una pressione generale che i media riflettono e che si agita sotto pelle nel mondo globale: uscire a tutti i costi dalla crisi.

Il Giappone ha varato un programma fatto sostanzialmente di tre cose: riacquisto del debito pubblico nazionale attraverso l'emissione di nuova moneta (senza preoccupazioni per gli effetti inflattivi dopo vent'anni di deflazione). Poi un massiccio piano di investimenti pubblici da 100 miliardi di euro, più incisivo dei precedenti nelle speranze del governo. E infine una riforma della finanza pubblica, che però non è ancora stata presentata.
I primi risultati sono stati molto positivi. Dopo la tristemente epica "lost decade" – i dieci anni perduti dalla seconda economia del mondo addormentata nella stagnazione, una crisi profonda cominciata dopo uno sboom immobiliare – i fondamentali giapponesi cominciano a dare segni di buona salute, risvegliati dalla scossa di Abe. Il mercato azionario viaggia a ritmi molto intensi. I consumi interni che valgono il 60% del Pil crescono. Anche a causa della svalutazione dello yen le esportazioni sono cresciute del 3,8 per cento nell' ultimo trimestre (il Time ha dedicato una copertina a una impresa dell'industria dell'abbigliamento giapponese considerata un simbolo della ripresa). Nel primo trimestre dell'anno il pil è cresciuto dello 0,9% e le previsioni per quest'anno e per il prossimo sono eccellenti: per il 2013 siamo a +3,5% (al di sopra delle previsioni degli analisti che si fermavano al 2,8).
Il fatto che la crescita delle esportazioni giapponesi sia stata determinata per ora dalla svalutazione dello yen, allarma le altre banche centrali, preoccupate da una eventuale guerra delle valute. 
Ma nelle cancellerie europee – non sempre i sintonia con le perplessitá dei banchieri centrali estranei al problema del consenso – ci si chiede se sia possibile esportare la ricetta di Shinzo Abe in Europa. Nel dibattito economico internazionale i sostenitori della via giapponese crescono a destra e a sinistra. E dicono che sì, è possibile seguire Abe, perché l'Europa rischia di essere soffocata da troppa austerità. Ovviamente questo dovrebbe passare per un negoziato con la Bce. Mario Draghi si è impegnato a fare in modo che nessuno dei paesi in difficoltà sarà abbandonato. Nessuno sarà messo nelle condizioni di uscire dall'euro. Ma il sostegno di Francoforte ha un perimetro circoscritto. La Bce non stamperà moneta per comprare altro debito pubblico dei paesi membri. 
Ma il tema sollevato dalla performance giapponese resta politicamente intrigante. Certo, i risultati finora messi a segno da Abe sono il frutto di una politica molto esasperata, a partire dal (quasi) raddoppio della base monetaria. Ma i risultati ci sono. E l'Europa pur nei limiti del Trattato potrebbe avere la tentazione di seguire una strada simile. Il vero problema per la mano pubblica nel vecchio continente sono i meccanismi politici di decisione e formazione del consenso privi di una visione d'insieme e troppo soggetti al compromesso continuo.  
Però ricordiamo che se l'Italia è al settimo trimestre consecutivo di crescita negativa, e la Francia è appena entrata in recessione, la Germania – pur in ottima salute rispetto agli altri due grandi paesi fondatori – ha smesso di correre e nel primo trimestre di quest'anno è cresciuta solo dello 0,1% per cento. Tenere sotto controllo i conti pubblici è una necessità dettata anche da esigenze di equità fiscale, ma riavviare lo sviluppo è la vera sfida da affrontare. La Cina regge, gli Stati Uniti ripartono e adesso anche il Giappone. Solo l'Europa rischia di restare al palo.

Marco Ferrante

da Il Messaggero del 17 maggio 2013


venerdì 22 marzo 2013

Il pauperismo (a volte in compagnia della decrescita felice) ci sta prendendo emotivamente la mano, ma dovremmo tornare a concentrarci sulla crescita economica e sulla condivisione della ricchezza


Il Messaggero 21 marzo

Con un battito di ciglia, abbiamo dimenticato la storia del secolo scorso in cui la ricchezza di tutto l’Occidente è stata la crescita, il più travolgente sviluppo economico e miglioramento delle condizioni di vita della storia dell’umanità: l’impennata della curva del Pil trascinata dalla libertà dei commerci e dalla tecnologia. Ma, invece di riparare le strade della crescita, di aggiornare il nostro modello, all’improvviso ci siamo lasciati travolgere da una (ir)resistibile onda di pauperismo. Suggestionati dalla grande crisi finanziaria del 2008, innestata sul più ingente trasferimento di produzione, lavoro e ricchezza da una parte all’altra del mondo – direzione Cina – dell’evo moderno e contemporaneo, dagli scricchiolii dell’Occidente e da una valanga di risposte oscillanti tra ideologia e simboli.
Il primo papa gesuita sceglie il nome di un santo che si spoglia delle ricchezze accumulate da suo padre. Poi si libera degli ornamenti più imperiali del suo potere e li contestualizza ai tempi duri: l’anello d’oro che diventa d’argento (pochi euro di differenza per una smaliziata scorciatoia valoriale molto enfatizzata dai media ma che non rende di per sé la Chiesa più forte), il crocifisso di ferro, niente ermellino (che però forse era già sintetico), niente mocassini rossi, ma vecchie scarpe risuolate a Buenos Aires. E invoca bontà, tenerezza, attenzione per i più poveri, i deboli, i nudi, i malati, il creato.
Beppe Grillo, leader populista e anticastale, e portavoce della deriva antieconomica che ha investito un pezzo della nostra società, ha subito cercato una parentela con Bergoglio, il papa low cost, che come noi – ha spiegato con modestia – ha scelto di ispirarsi a San Francesco. E sul suo blog ha aggiunto che la politica senza soldi è sublime, così come potrebbe diventare una Chiesa senza soldi.
C’è molta maniera in questo tentativo di infilarsi nella scia delle prime azioni del nuovo papa. Secondo Margaret Thatcher il buon samaritano non diventò così famoso solo per le sue buone intenzioni, ma anche perché era pieno di soldi. Grillo è l’interprete di una idea di decrescita, di suddivisione della torta in parti più piccole. Promette la partecipazione all’impoverimento.
Del resto, una spinta a frenare la ricchezza si avverte in tutta Europa. In Francia Francois Hollande come primo atto post-sarkozista aveva imposto al governo la tassa sui patrimoni sopra il milione di euro. Conseguenze nefaste per il gettito dell’imposta, vicino allo zero, ed effetto psicologico negativo sui residenti francesi. Ma anche un (molto) indesiderato boomerang: perché il ministro delle finanze francesi Jerome Cahuzac, responsabile tecnico della supertassa contro i ricchi, è stato accusato di avere avuto un conto in una banca svizzera per occultare una frode fiscale, e due giorni fa è stato costretto alle dimissioni.
Il mese scorso dalla Svizzera è arrivata una decisione non scontata. Il paese occidentale in cui il capitalismo – più che altrove – assume forme castali sceglie di sottrarre ai comitati remunerazione dei consigli di amministrazione le decisioni sulle retribuzioni dei manager, per affidarle alle assemblee degli azionisti; e dunque per limitare la sperequazione tra i compensi dei vertici aziendali e gli stipendi di base dei dipendenti.  
Sono risposte – spesso emotive – all’emergenza di questo inizio secolo. Lo squilibrio nella distribuzione del reddito, con una disponibilità economica dei ceti medi sempre più scarsa, e con una protezione insufficiente da parte di sistemi di welfare sempre più costosi e ormai sganciati dalla ricchezza novecentesca. La conseguenza è la crescita di un profondo risentimento sociale che dovremmo cercare di tenere sotto controllo. Questo lo ha ricordato nei giorni scorsi anche il pragmatico papa Francesco.
E invece questo risentimento rischia di essere esasperato da soluzioni troppo radicali. In un articolo pubblicato da Micromega – e che riprende le tesi del suo ultimo libro pubblicato in Italia da Einaudi “Il prezzo della diseguaglianza” – Joseph Stiglitz (l’economista cui peraltro si ispira Beppe Grillo, con una buffa storia smentita dal premio Nobel, su una sua partecipazione alla stesura del programma M5S) dice che la situazione globale può migliorare solo se in Occidente il 99 per cento della popolazione si rende conto di essere stata ingannata dal restante un per cento. Una specie di richiamo al radicalismo della lotta di classe, che non sembra esattamente il metodo migliore per riformare nel senso dell’equità il nostro mondo. 
Non sarà “meglio tutti più poveri, ma tutti più uguali” la risposta alla crisi. Bisognerebbe riuscire a fare al tempo stesso due cose: redistribuire il reddito disponibile con riforme eque, e attenuare il senso della distanza tra ricchi e poveri, potenti e sudditi con soluzioni anche simboliche (in fondo, visto con la sensibilità dell’opinione pubblica, il crocifisso di Francesco e il taglio dei costi della politica sono l’alto e il basso di emotività cugine). Ma dovremmo anche provare a riformare le nostre società pensando a come si può ricominciare a crescere economicamente. Quelli che "sarebbe meglio essere tutti un po' più ricchi" vanno meno di moda, ma dovremmo riscoprirli.

Marco Ferrante

mercoledì 20 marzo 2013

Le spese della Camera. Perché – Grillo o non Grillo – rendicontare le caramelle è un esercizio civile. Ma, attenzione, il vero costo nel bilancio della Camera sono stipendi e pensioni di deputati e dipendenti: 800 milioni su un miliardo di euro


Il Messaggero

Rendicontare le caramelle, questo è l’obiettivo dei cittadini M5S che nelle camere – fiato sul collo nemico – saranno lì di guardia alla virtù pubblica. Rendicontare le caramelle non sarà facile, ma è possibile. Prendiamo la Camera dei Deputati. Nelle pieghe di un bilancio da 1,087 miliardi di euro ci sono ampi margini per risparmiare. Sarà bene ricordare però, che la parte più cospicua del bilancio della Camera potrà essere tagliata quasi esclusivamente con provvedimenti di legge, perché riguarda stipendi e pensioni di deputati e dipendenti. Circa 800 milioni di euro, così suddivisi: 161 milioni per indennità e rimborsi dei deputati, 136 per le pensioni dei deputati, 287 milioni per gli stipendi dei dipendenti e 216 per le pensioni dei dipendenti (con molte polemiche sui trattamenti d’oro per tutti i livelli retributivi dal segretario generale ai commessi, in media tre volte e mezzo lo stipendio di uno statale ordinario di pari grado).  
Però, per esempio, dentro questi 800 milioni di euro, risulterebbero abbastanza caramellose le voci sui rimborsi viaggio per i deputati – quasi 11 milioni – e per gli ex deputati (800.000 euro).
Dove i neo eletti M5S troverebbero molto materiale è nella V categoria del I titolo, la spesa per gli acquisti di beni e servizi. È una voce comprimibile senza ricorrere a provvedimenti di legge e vale 163 milioni di euro, cioè il 15% circa del bilancio di Montecitorio. Spiccioli di fronte all’immensità del bilancio pubblico (800 miliardi di euro circa), ma simbolicamente interessanti perché sono una piccola isola di opacità e di spreco.
C’è solo da mettersi al lavoro. 26 milioni di affitto di immobili. 13,7 milioni di spese di manutenzione, che è tradizionalmente una delle voci meno trasparenti nelle spese delle istituzioni, o anche nei bilanci delle grandi società private, perché vi si annidano possibili accordi con i fornitori. Per questo M5S punta a un posto di questore. In questi 13,7 milioni sono compresi – per esempio – 930.000 euro per gli ascensori, 1,2 milioni per i computer e 2,8 milioni per il software (questi vanno aggiunti a 1,2 milioni per l’acquisto di hardware – cioè altri computer – e 8 per l’acquisto di altro software, 9,2 milioni nel complesso messi a bilancio nella spesa in conto capitale). Poi ci sono 4 milioni di spese per l’acquisto di beni e materiali di consumo, tra cui spiccano 420.000 euro per non meglio precisati “materiali di consumo per sistemi informatici”. Alcune spese saranno considerate anacronistiche dalla modernità grillina (molto tablet e adsl): per esempio un milione per servizi vari di stampa. Altre inutili – non solo per loro, ma per chiunque abbia un po’ di buon senso – come i 950.000 euro per le spese di trasporto a favore degli inutilissimi eletti all’estero. Altre spese banalmente castali, come i 400.000 euro per la “formazione linguistica e informatica dei deputati”. Altre caramelle da rendicontare: 100.000 euro di servizi di guardaroba o l’inspiegabile contributo da 400.000 euro per la Fondazione Camera dei Deputati. Materiale altrettanto interessante sono le spese di funzionamento delle commissioni d’inchiesta. Il dibattito sull’utilità di questi organismi dura da molti anni perché la loro attività si sovrappone a quella ordinaria della magistratura; ma alcuni di essi sono pressocchè amatoriali e qualunque costo risulta stravagante. 150.000 euro vanno alla commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e attività illecite a esso connesse (sic), 100.000 euro a quella sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi regionali, 50.000 a quella sui “fenomeni di diffusione delle merci contraffatte e delle merci usurpative in campo commerciale”, dove – peraltro – sarebbe interessante riflettere anche sull’autore della definizione “merci usurpative”. Ovviamente nessuna di queste piccole spese è in sè una tragedia contabile, ma è rappresentativa di un metodo: l’idea che il denaro pubblico non appartenga a nessuno. Resta una considerazione generale che andrebbe fatta. La spesa di Montecitorio è un pezzettino emblematico della spesa pubblica. E la maggior parte della spesa è fatta di retribuzioni e previdenza. Solo lì è possibile modificare le uscite in modo strutturale, perché di solito è lì che si stratificano le iniquità. Il resto è fatto di un frastagliato agglomerato di spese varie, beni strumentali, servizi, investimenti, e anche di caramelle.

Marco Ferrante



domenica 3 febbraio 2013

Il rapporto banche-politica non riguarda solo l'affaire Mps, e non riguarda solo l'Italia. Succede in tutto l'Occidente e non ha a che fare con l'ideologia.

“Too big to fail”, il romanzone non-fiction di Andrew Ross Sorkin sulla crisi del 2008, è anche un lavoro sulle porte girevoli e sui rapporti tra politica e banche. A cominciare dalla vita di Henry – Hank – Paulson già potentissimo capo di Goldman Sachs che arriva al Tesoro negli ultimi due anni e mezzo del secondo mandato di Gorge W. Bush con la notevole dote di 485 milioni dollari di azioni GS, patrimonio da disinvestire. Paulson è un uomo di gusto personale molto parco, tanto che sua moglie Wendy gli suggerisce di restituire al grande magazzino Bergdorf Goodman un inutile cappotto di cashmere. Ma dal punto di vista dei rapporti di sistema la commistione finanza-politica descritta da Sorkin va ben oltre i conflitti d’interesse personali. E diventa un conflitto sistemico, con gli interessi del blocco bancario-finanziario che non sempre coincidono con l’interesse generale e che anzi sembrano prevalere. Charles Ferguson, prima milionario e poi documentarista, rimase sconcertato quando nessuno degli uomini dell’amministrazione Obama accettò di farsi intervistare per il suo “Inside Job” sulla crisi del 2008: in parte timorosi di una specie di gabanellismo internazionale dell’autore, in parte perché consapevoli di essere troppo intrinseci con le banche.
Negli Stati Uniti il rapporto stretto tra finanza e politica in parte dipende da necessità regolatorie (nessun settore è regolato quanto quello bancario), in parte perché è cresciuto il peso della finanza negli equilibri della società e del potere. Paulson viene chiamato al Tesoro perché in quel momento non c’è un altro uomo in America con relazioni migliori delle sue in Cina.
In Europa la relazione ha un’altra origine, un misto di selezione dirigenziale e di utilizzo del credito ai fini del consenso. Ma l’intreccio che noi oggi vediamo moltiplicato e deformato dalla grande crisi finanziaria, in realtà è parte integrante della nostra cultura novecentesca e del regime misto dell’economia continentale. Banche e politica.
Giovanni Malagodi – figlio di Olindo, grande giornalista e senatore giolittiano – entrò in politica a 49 anni dopo aver militato per 25 anni nella Comit di Raffaele Mattioli. A Oriana Fallaci racconta che sin da ragazzo pensava che avrebbe fatto politica: “Ma poi venne il fascismo e ciò mi tolse ogni possibilità di intraprendere quella carriera. Ricordo bene il giorno in cui mio padre disse: «Tu, bisogna che fai qualcos’altro. Magari una cosa non lontana dalla politica, come la banca. Così impari e, quando avrai cinquant’anni e il fascismo sarà finito e avrai messo da parte qualche soldo di liquidazione, potrai entrare in politica»". Poi spiega in cosa si avvicinano il mestiere di banchiere e quello di politico: “Quel dover giudicare le cose nel loro complesso cogliendo l’equilibrio tra le varie parti…”.
Da noi le grandi banche furono un serbatoio di classe dirigente politica. Dalla Comit venivano anche Ugo La Malfa, a lungo segretario del partito repubblicano, e Cesare Merzagora, che fu ministro del Commercio Estero, poi presidente della Popolare di Milano e presidente del Senato (eletto in parlamento da indipendente nella dc). Ma furono anche luogo di colonizzazione: uno dei simboli fu la presidenza della Bnl affidata al responsabile credito del Psi, Nerio Nesi. Su un piano dimensionale diverso, fu intensissimo il rapporto tra la democrazia cristiana e le Casse di Rispamio. Franco Evangelisti, potente numero due andreottiano, diceva che sullo scudo crociato avrebbe visto bene campeggiare il simbolo delle Casse. Ma questa è un’altra storia: la relazione tra credito, politica e territorio, una delle bussole del sistema del potere dc. Casse di risparmio, banche di credito agricolo e cooperativo. Da quella formula di governo del consenso venne poi l’ossessione dei partiti secondo-repubblicani di avere delle banche. Il caso Unipol-Ds, i leghisti di Credieuronord, le traiettorie di Fiorani e di Ponzellini. 
Il consolidamento del rapporto tra credito e comunità locali del resto è un cardine dell’economia europea. Le piccole e medie banche del territorio sono un fattore diffuso. Le banche agricole e le mutue in Francia, le Casse di risparmio spagnole, le banche locali in Olanda e Austria, le Landesbank tedesche (nel mirino di Mario Monti commissario alle concorrenza che imputava loro un regime di aiuti di stato).
Le fondazioni di origine bancaria sono un ibrido italiano. Hanno dato stabilità al sistema bancario e conservato un legame tra banche e territorio. Certo – in alcuni casi – il meccanismo ha lasciato uno spiraglio ai partiti. E se questo è stato evidente in una realtà come Siena - dove a nominare i vertici della Fondazione Mps sono amministrazioni locali con maggioranze dello stesso partito - nelle altre realtà è tutto molto più sfumato. Oggi in Intesa Sanpaolo le fondazioni hanno il 24% del capitale. Il presidente di Compagnia Sanpaolo (9,7%) Sergio Chiamparino, è un ex sindaco Pd di Torino, e il dominus di Cariplo (4,9%), Giuseppe Guzzetti, è un ex presidente democristiano della Lombardia. Ma Compagnia Sanpaolo non è una istituzione collaterale al Pd, e Guzzetti è diventato lui stesso una specie di istituzione bancaria. Lo stesso vale per le fondazioni azioniste di Unicredit (quelle sopra il 2% controllano il 9% complessivo del capitale).
Certo, c’è stata una fase in cui l’Italia, in forte deficit di classe dirigente prodotta dai partiti, ha visto affacciarsi sul crepaccio della politica pezzi di classi dirigenti provenienti dall’economia. Anche dalle banche. Dopo il no di Giovanni Bazoli, fondatore di Intesa Sanpaolo, a Beniamino Andreatta che gli offriva la guida dell’Ulivo, arrivò la stagione dei banchieri democratici, da Luigi Abete a Giuseppe Mussari, da Alessandro Profumo a Corrado Passera. Dei protagonisti di quella stagione solo Passera ha lasciato la banca per tentare l’avventura in politica.


Da Il Messaggero del 1 febbraio 2013

domenica 13 gennaio 2013

Alle politiche 2013, il modello dei partiti personali (a parte il Pd, che non essendo un partito leaderistico ha trovato un leader)

Da Il Messaggero di sabato 12 gennaio 2013 

Il deposito dei simboli di partito che si concluderà domenica alle 16 conferma, anche nei segni, il fenomeno che da noi è cominciato vent’anni fa. Il modello del partito di massa – fatto di idee guida, immagini condivise, pantheon di eroi, apparati, strutture e liste – modello che per 50 anni aveva funzionato anche per i piccoli partiti, è tramontato. Al suo posto si è insediato il nuovo schema del partito personale. Silvio Berlusconi ne era stato l’iniziatore anche avventuroso con un blitz organizzativo e mediatico a ridosso del marzo 1994. Nel 1996 una piccola operazione di spin-off intestata a Lamberto Dini aveva portato in parlamento una lista personale costruita intorno al presidente del consiglio uscente. Poi era stata la volta di Clemente Mastella incarnatosi in una multiforme serie di acronimi. Poi era toccato ad Antonio Di Pietro.
A causa del persistente successo popolare di Silvio Berlusconi a metà degli anni 2000 il dibattito pubblico si è concentrato sull’importanza della leadership come fattore di successo politico. Ci fu tutta una discussione a sinistra sui capi mancati (un libro di Alessandra Sardoni che indagava la questione fu pubblicato da Marsilio con il titolo “Il fantasma del leader”). Ma mentre il partito democratico scelse di rischiare la strada del partito plurale, tutto il resto dell’offerta politica si è concentrata su operazioni leaderistiche.
Un comico, nato in televisione alla fine degli anni ’70, e poi ritiratosi nello spazio telematico con un blog di enorme popolarità, ha fondato un movimento di protesta di grande presa, ma dalle regole private: con linguaggio e toni sempre eccessivi, Beppe Grillo invita tutti quelli che non sono d’accordo con le sue regole a uscire dal movimento. Il simbolo presentato ieri, sotto l’emblema del Movimento Cinque Stelle, presenta in basso anche il nome del capo, nonostante che per molti mesi il comico avesse negato di volersi presentare come candidato alla presidenza del consiglio.
Mario Monti, presidente del consiglio uscente – un altro dopo dopo Dini – entra in politica con una lista che sostiene un programma politico che coincide con il nome dell’autore: Agenda Monti. Il programma del tecnico che prova a trasformarsi in leader viene sostenuto da due forze anch’esse a trazione leaderistica: quella personale di Gianfranco Fini, e un altro partito – ancorché più strutturato, radicato sul territorio e con una estrazione politica molto consolidata (l’eredità della Dc) – l’Udc guidata e tenuta insieme da Pieferdinando Casini.
Un magistrato di 54 anni, Antonio Ingoia, dopo avere condotto una inchiesta molto delicata e controversa che lambisce anche il Capo dello Stato, decide di candidarsi in parlamento e federa alcuni partiti e movimenti già esistenti (verdi, comunisti, arancioni) e addirittura assorbe un altro partito personale, l’Idv di Antonio di Pietro: partito peraltro crollato nella reputazione proprio a causa dell’incapacità di selezionare classe dirigente capace e affidabile, cioè uno dei compiti essenziali per una formazione politica.
A sinistra – in fondo – è diventato un partito incardinato su una leadership anche Sel, soprattutto dopo l’esperienza di governo regionale di Nichi Vendola. 
Ma lo schema del partito personale resta fortissimo soprattutto nella declinazione berlusconiana. Tre mesi fa, quando sembrava che il vecchio fondatore fosse sul punto di ritirarsi, dal Pdl partì una sfilacciata diaspora di colonnelli e beneficiati degli anni d’oro che cercavano riparo altrove. Quando Berlusconi è ripartito, tirando fuori un’energia per molti inattesa, tutti sono tornati all’ombra del capo. Anche se per lui, come per Grillo, resta l’ambiguità del ruolo indefinito di candidato presidente e capo della coalizione. E mentre il Cav. ripropone il format dell’uomo solo contro tutti, dell’ex-outsider che scende in una arena ancora ostile (modello Servizio Pubblico) e fa sapere che sceglierà da solo e insindacabilmente i suoi candidati, a fronteggiarlo ci sarà l’unico partito rimasto fedele all’idea di partito: il Pd di Pierluigi Bersani, sopravvissuto alla stagione dei languori leaderistici con una soluzione che finora ha dato buoni risultati, le primarie, usate anche per scegliere i candidati al parlamento.

Marco Ferrante