domenica 3 febbraio 2013

Il rapporto banche-politica non riguarda solo l'affaire Mps, e non riguarda solo l'Italia. Succede in tutto l'Occidente e non ha a che fare con l'ideologia.

“Too big to fail”, il romanzone non-fiction di Andrew Ross Sorkin sulla crisi del 2008, è anche un lavoro sulle porte girevoli e sui rapporti tra politica e banche. A cominciare dalla vita di Henry – Hank – Paulson già potentissimo capo di Goldman Sachs che arriva al Tesoro negli ultimi due anni e mezzo del secondo mandato di Gorge W. Bush con la notevole dote di 485 milioni dollari di azioni GS, patrimonio da disinvestire. Paulson è un uomo di gusto personale molto parco, tanto che sua moglie Wendy gli suggerisce di restituire al grande magazzino Bergdorf Goodman un inutile cappotto di cashmere. Ma dal punto di vista dei rapporti di sistema la commistione finanza-politica descritta da Sorkin va ben oltre i conflitti d’interesse personali. E diventa un conflitto sistemico, con gli interessi del blocco bancario-finanziario che non sempre coincidono con l’interesse generale e che anzi sembrano prevalere. Charles Ferguson, prima milionario e poi documentarista, rimase sconcertato quando nessuno degli uomini dell’amministrazione Obama accettò di farsi intervistare per il suo “Inside Job” sulla crisi del 2008: in parte timorosi di una specie di gabanellismo internazionale dell’autore, in parte perché consapevoli di essere troppo intrinseci con le banche.
Negli Stati Uniti il rapporto stretto tra finanza e politica in parte dipende da necessità regolatorie (nessun settore è regolato quanto quello bancario), in parte perché è cresciuto il peso della finanza negli equilibri della società e del potere. Paulson viene chiamato al Tesoro perché in quel momento non c’è un altro uomo in America con relazioni migliori delle sue in Cina.
In Europa la relazione ha un’altra origine, un misto di selezione dirigenziale e di utilizzo del credito ai fini del consenso. Ma l’intreccio che noi oggi vediamo moltiplicato e deformato dalla grande crisi finanziaria, in realtà è parte integrante della nostra cultura novecentesca e del regime misto dell’economia continentale. Banche e politica.
Giovanni Malagodi – figlio di Olindo, grande giornalista e senatore giolittiano – entrò in politica a 49 anni dopo aver militato per 25 anni nella Comit di Raffaele Mattioli. A Oriana Fallaci racconta che sin da ragazzo pensava che avrebbe fatto politica: “Ma poi venne il fascismo e ciò mi tolse ogni possibilità di intraprendere quella carriera. Ricordo bene il giorno in cui mio padre disse: «Tu, bisogna che fai qualcos’altro. Magari una cosa non lontana dalla politica, come la banca. Così impari e, quando avrai cinquant’anni e il fascismo sarà finito e avrai messo da parte qualche soldo di liquidazione, potrai entrare in politica»". Poi spiega in cosa si avvicinano il mestiere di banchiere e quello di politico: “Quel dover giudicare le cose nel loro complesso cogliendo l’equilibrio tra le varie parti…”.
Da noi le grandi banche furono un serbatoio di classe dirigente politica. Dalla Comit venivano anche Ugo La Malfa, a lungo segretario del partito repubblicano, e Cesare Merzagora, che fu ministro del Commercio Estero, poi presidente della Popolare di Milano e presidente del Senato (eletto in parlamento da indipendente nella dc). Ma furono anche luogo di colonizzazione: uno dei simboli fu la presidenza della Bnl affidata al responsabile credito del Psi, Nerio Nesi. Su un piano dimensionale diverso, fu intensissimo il rapporto tra la democrazia cristiana e le Casse di Rispamio. Franco Evangelisti, potente numero due andreottiano, diceva che sullo scudo crociato avrebbe visto bene campeggiare il simbolo delle Casse. Ma questa è un’altra storia: la relazione tra credito, politica e territorio, una delle bussole del sistema del potere dc. Casse di risparmio, banche di credito agricolo e cooperativo. Da quella formula di governo del consenso venne poi l’ossessione dei partiti secondo-repubblicani di avere delle banche. Il caso Unipol-Ds, i leghisti di Credieuronord, le traiettorie di Fiorani e di Ponzellini. 
Il consolidamento del rapporto tra credito e comunità locali del resto è un cardine dell’economia europea. Le piccole e medie banche del territorio sono un fattore diffuso. Le banche agricole e le mutue in Francia, le Casse di risparmio spagnole, le banche locali in Olanda e Austria, le Landesbank tedesche (nel mirino di Mario Monti commissario alle concorrenza che imputava loro un regime di aiuti di stato).
Le fondazioni di origine bancaria sono un ibrido italiano. Hanno dato stabilità al sistema bancario e conservato un legame tra banche e territorio. Certo – in alcuni casi – il meccanismo ha lasciato uno spiraglio ai partiti. E se questo è stato evidente in una realtà come Siena - dove a nominare i vertici della Fondazione Mps sono amministrazioni locali con maggioranze dello stesso partito - nelle altre realtà è tutto molto più sfumato. Oggi in Intesa Sanpaolo le fondazioni hanno il 24% del capitale. Il presidente di Compagnia Sanpaolo (9,7%) Sergio Chiamparino, è un ex sindaco Pd di Torino, e il dominus di Cariplo (4,9%), Giuseppe Guzzetti, è un ex presidente democristiano della Lombardia. Ma Compagnia Sanpaolo non è una istituzione collaterale al Pd, e Guzzetti è diventato lui stesso una specie di istituzione bancaria. Lo stesso vale per le fondazioni azioniste di Unicredit (quelle sopra il 2% controllano il 9% complessivo del capitale).
Certo, c’è stata una fase in cui l’Italia, in forte deficit di classe dirigente prodotta dai partiti, ha visto affacciarsi sul crepaccio della politica pezzi di classi dirigenti provenienti dall’economia. Anche dalle banche. Dopo il no di Giovanni Bazoli, fondatore di Intesa Sanpaolo, a Beniamino Andreatta che gli offriva la guida dell’Ulivo, arrivò la stagione dei banchieri democratici, da Luigi Abete a Giuseppe Mussari, da Alessandro Profumo a Corrado Passera. Dei protagonisti di quella stagione solo Passera ha lasciato la banca per tentare l’avventura in politica.


Da Il Messaggero del 1 febbraio 2013