sabato 10 dicembre 2011

A proposito del fatto che è difficile reinventarsi una vita senza un avversario

Recensione di un libro di Tim Adams del 2005, trovata nel computer, pubblicata da qualche parte – credo – ma non ricordo più dove.

Tim Adams si ricorda di John McEnroe, soprattutto in un pomeriggio del 1983, quando distrusse un certo Scanlon, Bill Scanlon, in un ottavo di Wimbledon. Lo strapazzò e strapazzò se stesso, grattandosi la testa, litigando con l’arbitro, tirandosi su le maniche della maglietta, imprecando e perdendo tempo. Tim Adams dice che quel pomeriggio gli si rivelò la ragione per cui John McEnroe sarebbe sempre stato un uomo alla cui vita mancasse qualcosa. Gli mancava Bjorn Borg. A pag. 9 di questo formidabile libriccino di memorie e saggistica mcenroesca, “Essere John McEnroe”, Mondadori, molto letterario perché privo di letterarietà, è possibile sentire lui stesso, JMcE, spiegare la questione: “Nel 1981, dopo averlo battuto prima alle finali di Wimbledon e poi agli Us Open, Borg ha smesso di punto in bianco di partecipare alle competizioni principali. Per me è stato devastante se è questo il termine giusto… chiaramente dopo di ciò mi sono sentito svuotato, perché fino a quel momento tutto era stato emozionante al massimo. Certo, c’erano altri grandi rivali – come Lendl e Connors – ma con Borg era più naturale. Avevamo personalità e stili di gioco così diversi, che non c’era bisogno di aggiungere altro”. 
Bjorn Borg aveva 24 anni e John McEnroe 21 quando si incontrarono in una delle più belle partite della storia, cinque set con un tie-break memorabile a 18 nel quarto. Era il 5 luglio 1980, Borg vinse il suo quinto Wimbledon consecutivo, e per la prima volta da quando dominava il ranking mondiale, ebbe davvero paura e poi, nonostante la vittoria, capì che era finita. L’anno successivo, McEnroe lo sconfisse e diventò il nuovo numero uno. Se ne stette in cima al mondo per tre anni (faticosi): per chi non aveva mai visto giocare la generazione dei Laver e dei Rosewall è stato il più incredibile giocatore e inventore di tennis che si sia mai ammirato. Scostumato, scostante, di una arroganza rara, ma era talento puro. Non aveva la pulizia che si sarebbe vista dieci anni dopo nei movimenti cristallini di Pete Sampras. Era un talento sporcato dal furore dell’invenzione, dal tratto personale. Batteva stando completamente parallelo alla linea di fondo. Questo gli serviva a nascondere la palla fino all’ultimo. Forse il suo colpo più bello – non sempre il più efficace – era la risposta al servizio di rovescio. Sapeva fare una cosa che nessuno ha mai fatto come lui: sapeva anticipare la risposta, cioè colpiva la palla senza fare il movimento d’apertura, dunque con la racchetta all’altezza della pancia come una chitarra (ma fu un pessimo chitarrista, giacchè aveva l’ambizione di diventare una rockstar, e – come racconta Adams – una volta David Bowie passò a prenderlo dal suo albergo per andare a bere qualcosa, ma gli disse “purché non porti la tua chitarra”). 
Vinse 77 tornei di singolare e altrettanti di doppio, guadagnando 13 milioni di dollari di premi. In singolare vinse sette titoli del Grande Slam (i quattro tornei Open più importanti): tre Wimbledon e quattro Us Open; vinse anche dieci titoli di doppio nello Slam, e in singolare tre Masters (il primo a diciannove anni) e cinque volte la coppa Davis. E’ stato numero uno dal 1980 al 1984, l’anno in cui vinse tredici tornei e annichilì Jimmy Connors detto Jimbo nella finale di Wimbledon con un incredibile 6-1, 6-1, 6-2. 
Oggi, dopo una vita che ne contiene molte altre, John Mc Enroe ha sei figli e commenta il tennis per la tv, senza enfasi e senza eccedere nei ricordi. I ricordi ha scelto di esorcizzarli a suo modo, senza far finta che il tennis non sia mai esistito. Pertanto, gioca nei tornei Senior e chiama tutti gli amici di un tempo e cerca di convincerli a entrare anche loro nel giro degli ultraquarantenni che armeggiano ancora. Ce l’ha fatta con quel pazzo di Henri Leconte che non ha mai vinto uno Slam nonostante il genio mancino e con Peter Korda che era forte almeno quanto Sampras ma fu tradito dal nandrolone. Non c’è l’ha fatta ancora con Stefan Edberg, che continua pure lui ad allenarsi, ma non vuole giocare con gli altri. 
Lui, John, resta circodato da un aura. Basta guardare le sue vecchie foto, ricordarsi di quello stile da scugnizzo sì, ma molto per bene e incredibilmente moderno. Secondo Tim Adams John McEnroe non fu solo un genio tennistico, fu anche l’annuncio sognante e glorioso degli anni 80. Alla fine degli anni settanta “personificava sul campo quel genere di schietto individualismo che avrebbe caratterizzato il decennio successivo: quando giocava lui, non esistevano cose come la società”. Fu il primo testimonial globale dell’avanzata della neonata Nike sui mercati di tutto il mondo, fu l’uomo che vide chiudersi – lui regnante – il tempo delle rachette di legno, e fu soprattutto il ragazzo riccioluto che avremmo voluto essere, con una fascia rossa tra i capelli che con le mani sui fianchi manda al diavolo un arbitro che gli ha chiamato un out e lui gli chiede perché l’ha fatto e l’arbiro non se lo fila e lui lo incalza: “Risponda alla domanda. Ho detto: risponda alla domanda”.