Da Il Messaggero di sabato 12 gennaio 2013
Il deposito dei simboli di partito che si concluderà domenica alle 16 conferma, anche nei segni, il fenomeno che da noi è cominciato
vent’anni fa. Il modello del partito di massa – fatto di idee guida, immagini
condivise, pantheon di eroi, apparati, strutture e liste – modello che per 50
anni aveva funzionato anche per i piccoli partiti, è tramontato. Al suo posto
si è insediato il nuovo schema del partito personale. Silvio Berlusconi ne era
stato l’iniziatore anche avventuroso con un blitz organizzativo e mediatico a
ridosso del marzo 1994. Nel 1996 una piccola operazione di spin-off intestata a
Lamberto Dini aveva portato in parlamento una lista personale costruita intorno
al presidente del consiglio uscente. Poi era stata la volta di Clemente
Mastella incarnatosi in una multiforme serie di acronimi. Poi era toccato ad
Antonio Di Pietro.
A causa del persistente successo popolare di Silvio
Berlusconi a metà degli anni 2000 il dibattito pubblico si è concentrato
sull’importanza della leadership come fattore di successo politico. Ci fu tutta
una discussione a sinistra sui capi mancati (un libro di Alessandra Sardoni che
indagava la questione fu pubblicato da Marsilio con il titolo “Il fantasma del
leader”). Ma mentre il partito democratico scelse di rischiare la strada del
partito plurale, tutto il resto dell’offerta politica si è concentrata su
operazioni leaderistiche.
Un comico, nato in televisione alla fine degli anni ’70, e
poi ritiratosi nello spazio telematico con un blog di enorme popolarità, ha
fondato un movimento di protesta di grande presa, ma dalle regole private: con
linguaggio e toni sempre eccessivi, Beppe Grillo invita tutti quelli che non
sono d’accordo con le sue regole a uscire dal movimento. Il simbolo presentato
ieri, sotto l’emblema del Movimento Cinque Stelle, presenta in basso anche il
nome del capo, nonostante che per molti mesi il comico avesse negato di volersi
presentare come candidato alla presidenza del consiglio.
Mario Monti, presidente del consiglio uscente – un altro
dopo dopo Dini – entra in politica con una lista che sostiene un programma
politico che coincide con il nome dell’autore: Agenda Monti. Il programma del
tecnico che prova a trasformarsi in leader viene sostenuto da due forze
anch’esse a trazione leaderistica: quella personale di Gianfranco Fini, e un
altro partito – ancorché più strutturato, radicato sul territorio e con una
estrazione politica molto consolidata (l’eredità della Dc) – l’Udc guidata e
tenuta insieme da Pieferdinando Casini.
Un magistrato di 54 anni, Antonio Ingoia, dopo avere
condotto una inchiesta molto delicata e controversa che lambisce anche il Capo
dello Stato, decide di candidarsi in parlamento e federa alcuni partiti e
movimenti già esistenti (verdi, comunisti, arancioni) e addirittura assorbe un
altro partito personale, l’Idv di Antonio di Pietro: partito peraltro crollato
nella reputazione proprio a causa dell’incapacità di selezionare classe
dirigente capace e affidabile, cioè uno dei compiti essenziali per una
formazione politica.
A sinistra – in fondo – è diventato un partito incardinato
su una leadership anche Sel, soprattutto dopo l’esperienza di governo regionale
di Nichi Vendola.
Ma lo schema del partito personale resta fortissimo
soprattutto nella declinazione berlusconiana. Tre mesi fa, quando sembrava che
il vecchio fondatore fosse sul punto di ritirarsi, dal Pdl partì una
sfilacciata diaspora di colonnelli e beneficiati degli anni d’oro che cercavano
riparo altrove. Quando Berlusconi è ripartito, tirando fuori un’energia per
molti inattesa, tutti sono tornati all’ombra del capo. Anche se per lui, come
per Grillo, resta l’ambiguità del ruolo indefinito di candidato presidente e
capo della coalizione. E mentre il Cav. ripropone il format dell’uomo solo
contro tutti, dell’ex-outsider che scende in una arena ancora ostile (modello
Servizio Pubblico) e fa sapere che sceglierà da solo e insindacabilmente i suoi
candidati, a fronteggiarlo ci sarà l’unico partito rimasto fedele all’idea di
partito: il Pd di Pierluigi Bersani, sopravvissuto alla stagione dei languori
leaderistici con una soluzione che finora ha dato buoni risultati, le primarie,
usate anche per scegliere i candidati al parlamento.
Marco Ferrante