Il Messaggero
Per un paio di millenni l’Aventino – come fatto politico – è
stata una cosa seria. La Secessio plebis era la tecnica di lotta del colle plebeo
Aventino contro il dirimpettaio colle patrizio Palatino. Una specie di serrata
e di abbandono temporaneo della città cui cercò di trovare una soluzione
Menenio Agrippa (utilità delle scuole medie) con la metafora del corpo umano
per spiegare il funzionamento di una società. Sull’Aventino – come rifugio di
parte plebea – cercò scampo dalle truppe consolari Caio Gracco, figlio di
Cornelia, che poi morì sul Gianicolo.
L’Aventino, come luogo mitico della protesta, fu riesumato
all’inizio del ventennio fascista nei giorni dell’omicidio Matteotti.
L’opposizione, nonostante il parere contrario di Antonio Gramsci, abbandona
l’aula e da lì inizia un processo che porterà al regime. L’Aventino diventa
nell’immaginario il luogo di un errore politico, ma anche di una testimonianza
anti-tirannica.
La questione aventiniana – come antefatto di un successivo
luogo comune – tornò ad affacciarsi alla vita pubblica settant’anni dopo, alla
fine della prima repubblica. Quando il leader dei radicali Marco Pannella
lanciò l’iniziativa degli autoconvocati: 230 deputati, alcuni colpiti dagli
avvisi di garanzia, si autoconvocano nel tentativo di salvare la giovane
legislatura travolta dalla tempesta tangentopolista. Fu un Aventino di fatto.
Era la primavera del 1993. Non dette i risultati sperati, e cominciò la seconda
repubblica.
Due anni dopo si registrò un nuovo caso: una specie di
arzigogolo fusionista in cui nei richiami dei protagonisti convissero
l’Aventino e la Pallacorda, citazione pre-rivoluzionaria (francese) a cura del
parlamentare di Forza Italia Pietro Di Muccio. Serviva per spiegare il senso di
un’assemblea congiunta dei parlamentari del Polo per protestare contro il
governo Dini. (Al capo di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini non piacque, invece, il riferimento all’Aventino che altri utilizzarono).
Dopodichè, negli anni, è stato tutto un ricorso formalistico
all’espressione secessionista. Ogni occasione è stata buona per minacciare
forme di aventinismo, come forma retorica, giornalistica, sempre un po’
vittimistica. Umberto Bossi se ne appropria nel 1996 quando ancora punta all’indipendenza della Padania. Successivamente, qualcuno schekera Aventino e Non expedit per
commentare una dichiarazione del vescovo Alessandro Maggiolini, il quale, nel 1998
suggerisce ai deputati del Partito popolare di lasciare il governo di centro
sinistra in difesa dei valori cattolici. Per tutti gli anni 2000 destra e sinistra
quando sono all’opposizione prima o poi minacciano un Aventino. È un riflesso condizionato, una prova sottintesa del carattere frontista di un sistema bipolare
che non ha imparato a dialogare, e dove l’opposizione si sente sempre alle
strette.
L’ultima volta che la questione aveva preso piede era stato
nella primavera del 2011. Volevano fare l’Aventino i deputati pidini che su
proposta di Rosy Bindi spingevano per un atto eclatante di protesta contro la
cosiddetta prescrizione breve. Bindi dette un’intervista a Repubblica per
sostenere la tesi del grande gesto. Poi non se ne fece niente, la maggioranza si incartò e la
prescrizione breve non passò. Con grande soddisfazione politica degli
anti-aventinisti, memori dell’insegnamento di Gramsci.
L’anno dopo nel Pd ci fu un rigurgito aventiniano in
occasione del dibattito al senato sulle riforme costituzionali. E di Aventino
implicito in un certo senso si è parlato anche in occasione del congelamento
dei voti M5S deciso da Bepe Grillo all’indomani delle elezioni generali di
febbraio scorso non solo per la composizione del governo e per il Quirinale, ma
anche per le presidenze di Camera e Senato. Occasione in cui erano stati quelli
del Pdl a minacciare l’Aventino perché il centrosinistra aveva votato presidenti
non condivisi dall’opposizione.
Così, Aventino è ormai un luogo comune. E siccome, inoltre, di
solito non dà risultati – se non cattivi – nel nostro immaginario il suo
significato rischia di trasformarsi sempre di più in altre espressioni
figurate. Perché nel lessico politico italiano l’Aventino è sempre più simile a
un Quarantotto (nel senso di una grande confusione) a una Caporetto (sconfitta
evitabile) o – peggio del peggio – a un’Ambaradan (sconfitta e grande confusione).
Marco Ferrante