giovedì 11 luglio 2013

Più che un Aventino è un Quarantotto, anzi un Ambaradan

Il Messaggero


Per un paio di millenni l’Aventino – come fatto politico – è stata una cosa seria. La Secessio plebis era la tecnica di lotta del colle plebeo Aventino contro il dirimpettaio colle patrizio Palatino. Una specie di serrata e di abbandono temporaneo della città cui cercò di trovare una soluzione Menenio Agrippa (utilità delle scuole medie) con la metafora del corpo umano per spiegare il funzionamento di una società. Sull’Aventino – come rifugio di parte plebea – cercò scampo dalle truppe consolari Caio Gracco, figlio di Cornelia, che poi morì sul Gianicolo.
L’Aventino, come luogo mitico della protesta, fu riesumato all’inizio del ventennio fascista nei giorni dell’omicidio Matteotti. L’opposizione, nonostante il parere contrario di Antonio Gramsci, abbandona l’aula e da lì inizia un processo che porterà al regime. L’Aventino diventa nell’immaginario il luogo di un errore politico, ma anche di una testimonianza anti-tirannica.
La questione aventiniana – come antefatto di un successivo luogo comune – tornò ad affacciarsi alla vita pubblica settant’anni dopo, alla fine della prima repubblica. Quando il leader dei radicali Marco Pannella lanciò l’iniziativa degli autoconvocati: 230 deputati, alcuni colpiti dagli avvisi di garanzia, si autoconvocano nel tentativo di salvare la giovane legislatura travolta dalla tempesta tangentopolista. Fu un Aventino di fatto. Era la primavera del 1993. Non dette i risultati sperati, e cominciò la seconda repubblica.
Due anni dopo si registrò un nuovo caso: una specie di arzigogolo fusionista in cui nei richiami dei protagonisti convissero l’Aventino e la Pallacorda, citazione pre-rivoluzionaria (francese) a cura del parlamentare di Forza Italia Pietro Di Muccio. Serviva per spiegare il senso di un’assemblea congiunta dei parlamentari del Polo per protestare contro il governo Dini. (Al capo di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini non piacque, invece, il riferimento all’Aventino che altri utilizzarono).
Dopodichè, negli anni, è stato tutto un ricorso formalistico all’espressione secessionista. Ogni occasione è stata buona per minacciare forme di aventinismo, come forma retorica, giornalistica, sempre un po’ vittimistica. Umberto Bossi se ne appropria nel 1996 quando ancora punta all’indipendenza della Padania. Successivamente, qualcuno schekera Aventino e Non expedit per commentare una dichiarazione del vescovo Alessandro Maggiolini, il quale, nel 1998 suggerisce ai deputati del Partito popolare di lasciare il governo di centro sinistra in difesa dei valori cattolici. Per tutti gli anni 2000 destra e sinistra quando sono all’opposizione prima o poi minacciano un Aventino. È un riflesso condizionato, una prova sottintesa del carattere frontista di un sistema bipolare che non ha imparato a dialogare, e dove l’opposizione si sente sempre alle strette.
L’ultima volta che la questione aveva preso piede era stato nella primavera del 2011. Volevano fare l’Aventino i deputati pidini che su proposta di Rosy Bindi spingevano per un atto eclatante di protesta contro la cosiddetta prescrizione breve. Bindi dette un’intervista a Repubblica per sostenere la tesi del grande gesto. Poi non se ne fece niente, la maggioranza si incartò e la prescrizione breve non passò. Con grande soddisfazione politica degli anti-aventinisti, memori dell’insegnamento di Gramsci.
L’anno dopo nel Pd ci fu un rigurgito aventiniano in occasione del dibattito al senato sulle riforme costituzionali. E di Aventino implicito in un certo senso si è parlato anche in occasione del congelamento dei voti M5S deciso da Bepe Grillo all’indomani delle elezioni generali di febbraio scorso non solo per la composizione del governo e per il Quirinale, ma anche per le presidenze di Camera e Senato. Occasione in cui erano stati quelli del Pdl a minacciare l’Aventino perché il centrosinistra aveva votato presidenti non condivisi dall’opposizione.
Così, Aventino è ormai un luogo comune. E siccome, inoltre, di solito non dà risultati – se non cattivi – nel nostro immaginario il suo significato rischia di trasformarsi sempre di più in altre espressioni figurate. Perché nel lessico politico italiano l’Aventino è sempre più simile a un Quarantotto (nel senso di una grande confusione) a una Caporetto (sconfitta evitabile) o – peggio del peggio – a un’Ambaradan (sconfitta e grande confusione). 

Marco Ferrante