domenica 13 gennaio 2013

Alle politiche 2013, il modello dei partiti personali (a parte il Pd, che non essendo un partito leaderistico ha trovato un leader)

Da Il Messaggero di sabato 12 gennaio 2013 

Il deposito dei simboli di partito che si concluderà domenica alle 16 conferma, anche nei segni, il fenomeno che da noi è cominciato vent’anni fa. Il modello del partito di massa – fatto di idee guida, immagini condivise, pantheon di eroi, apparati, strutture e liste – modello che per 50 anni aveva funzionato anche per i piccoli partiti, è tramontato. Al suo posto si è insediato il nuovo schema del partito personale. Silvio Berlusconi ne era stato l’iniziatore anche avventuroso con un blitz organizzativo e mediatico a ridosso del marzo 1994. Nel 1996 una piccola operazione di spin-off intestata a Lamberto Dini aveva portato in parlamento una lista personale costruita intorno al presidente del consiglio uscente. Poi era stata la volta di Clemente Mastella incarnatosi in una multiforme serie di acronimi. Poi era toccato ad Antonio Di Pietro.
A causa del persistente successo popolare di Silvio Berlusconi a metà degli anni 2000 il dibattito pubblico si è concentrato sull’importanza della leadership come fattore di successo politico. Ci fu tutta una discussione a sinistra sui capi mancati (un libro di Alessandra Sardoni che indagava la questione fu pubblicato da Marsilio con il titolo “Il fantasma del leader”). Ma mentre il partito democratico scelse di rischiare la strada del partito plurale, tutto il resto dell’offerta politica si è concentrata su operazioni leaderistiche.
Un comico, nato in televisione alla fine degli anni ’70, e poi ritiratosi nello spazio telematico con un blog di enorme popolarità, ha fondato un movimento di protesta di grande presa, ma dalle regole private: con linguaggio e toni sempre eccessivi, Beppe Grillo invita tutti quelli che non sono d’accordo con le sue regole a uscire dal movimento. Il simbolo presentato ieri, sotto l’emblema del Movimento Cinque Stelle, presenta in basso anche il nome del capo, nonostante che per molti mesi il comico avesse negato di volersi presentare come candidato alla presidenza del consiglio.
Mario Monti, presidente del consiglio uscente – un altro dopo dopo Dini – entra in politica con una lista che sostiene un programma politico che coincide con il nome dell’autore: Agenda Monti. Il programma del tecnico che prova a trasformarsi in leader viene sostenuto da due forze anch’esse a trazione leaderistica: quella personale di Gianfranco Fini, e un altro partito – ancorché più strutturato, radicato sul territorio e con una estrazione politica molto consolidata (l’eredità della Dc) – l’Udc guidata e tenuta insieme da Pieferdinando Casini.
Un magistrato di 54 anni, Antonio Ingoia, dopo avere condotto una inchiesta molto delicata e controversa che lambisce anche il Capo dello Stato, decide di candidarsi in parlamento e federa alcuni partiti e movimenti già esistenti (verdi, comunisti, arancioni) e addirittura assorbe un altro partito personale, l’Idv di Antonio di Pietro: partito peraltro crollato nella reputazione proprio a causa dell’incapacità di selezionare classe dirigente capace e affidabile, cioè uno dei compiti essenziali per una formazione politica.
A sinistra – in fondo – è diventato un partito incardinato su una leadership anche Sel, soprattutto dopo l’esperienza di governo regionale di Nichi Vendola. 
Ma lo schema del partito personale resta fortissimo soprattutto nella declinazione berlusconiana. Tre mesi fa, quando sembrava che il vecchio fondatore fosse sul punto di ritirarsi, dal Pdl partì una sfilacciata diaspora di colonnelli e beneficiati degli anni d’oro che cercavano riparo altrove. Quando Berlusconi è ripartito, tirando fuori un’energia per molti inattesa, tutti sono tornati all’ombra del capo. Anche se per lui, come per Grillo, resta l’ambiguità del ruolo indefinito di candidato presidente e capo della coalizione. E mentre il Cav. ripropone il format dell’uomo solo contro tutti, dell’ex-outsider che scende in una arena ancora ostile (modello Servizio Pubblico) e fa sapere che sceglierà da solo e insindacabilmente i suoi candidati, a fronteggiarlo ci sarà l’unico partito rimasto fedele all’idea di partito: il Pd di Pierluigi Bersani, sopravvissuto alla stagione dei languori leaderistici con una soluzione che finora ha dato buoni risultati, le primarie, usate anche per scegliere i candidati al parlamento.

Marco Ferrante

giovedì 1 novembre 2012

Una cosa di Gae Aulenti

In quella magia inventiva che furono le grandi lampade degli anni '60, Gae Aulenti mise la sua impronta con la Pipistrello. Disegnata nel 1965 per Martinelli Luce che ancora la produce, diventò presto un segno grafico del design internazionale di cinque decenni, ininterrottamente. La scheda tecnica recita: 
"LAMPADA DA TAVOLO O DA TERRA A LUCE DIFFUSA, REGOLABILE IN ALTEZZA CON MOVIMENTO TELESCOPICO.
DIFFUSORE IN METACRILATO opal bianco. TELESCOPIO IN ACCIAIO INOX. BASE E POMELLO IN METALLO VERNICIATO NEI COLORI BIANCO, TESTA DI MORO, ROSSO PORPORA E ALLUMINIO SATINATO".
L'altezza può essere regolata tra i 66 e gli 86 centimetri. Originariamente era disponibile solo in bianco e testa di moro, forse la versione più bella. Poi sono venuti gli altri colori. In realtà più che un pipistrello (per via della forma del diffusore), richiama un fiore, con i petali opalini e il gambo conico. 
Phaidon Design Classic non la include nei 999 oggetti più rappresentativi della storia del design; e tra le creazioni della Aulenti preferisce due oggetti disegnati per Fontanarte nel 1980, la lampada Parola e il Tavolo con ruote. Ma la Pipistrello – insieme forse a un'altra lampada disegnata per Martinelli, la Ruspa – ha una personalità più spiccata e una forza più domestica, in un certo senso, a cui deve il suo status iconico. Fa parte delle collezioni permanenti del Moma, del Metropolitan Museum of Art, e del Museum des Arts Decorative di Montreal.       
  

domenica 28 ottobre 2012

Secondo CDB per vincere il ns eterno buddenbrookismo ci serve Steve Jobs

Da Il Messaggero del 26 ottobre 2012

Bisognerà chiedere a Pierluigi Bersani e a Matteo Renzi che cosa pensano delle idee di Carlo De Benedetti sul ruolo della politica in una drammatica stagione di crisi economica e sociale. Nella tradizione – da lui sempre nutrita – dell’imprenditore democratico che prende posizione, che esprime i suoi punti di vista e partecipa al dibattito pubblico, CDB pubblica “Mettersi in gioco” (Einaudi, pagg. 78, euro 10,00) un pamphlet in uscita in questi giorni che già dal titolo definisce una linea: solo accettando la sfida del cambiamento, l’Europa può provare ad arginare lo slittamento della sua posizione negli equilibri geo-economici in evoluzione. Secondo De Benedetti la crisi finanziaria (e le sue conseguenze) da cui non siamo ancora usciti “è l’epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i paesi nuovi, che rischia di implicare una marginalizzazione dell’Europa e della sua economia”. Dunque è una crisi che scuote le fondamenta del nostro modo di vivere perché ci rivela che siamo strutturalmente più poveri. Questo vale per tutto l’occidente. Uno dei segni del cambiamento profondo del nostro assetto sociale è l’aumento della disuguaglianza economica: si concentra la ricchezza nelle mani di un numero di individui sempre minore, e aumenta il divario tra i redditi. Paul Kennedy se ne servì per descrivere il declino della società americana (e De Benedetti lo cita); l’apertura della forbice dei redditi è una delle più forti ragioni di autocritica da parte di Robert Reich, già segretario al lavoro di Bill Clinton, nel suo Supercapitalismo, molto amato anche in Italia dai quei riformisti critici della Terza Via.
De Benedetti dice che questa divaricazione tra ricchi e poveri porterà a una lotta forsennata e globale per il lavoro. Mancano all’appello 1,8 miliardi di posti di lavoro nel mondo. I paesi che non sapranno dare risposte al problema del lavoro falliranno. La principale risorsa su cui dovremmo cercare di investire è l’innovazione. Un terreno su cui l’Italia è in netto ritardo rispetto al resto dei paesi avanzati. “Oggi solo il 30% delle medie imprese italiane opera in settori ad alta e media tecnologia, contro il 42,6% di quelle tedesche. La spesa per ricerca e sviluppo in Italia si attesta all’1,2% del Pil contro il 2,3% della media dei paesi Ocse”.
Questa è l’analisi. La proposta per uscire dalla crisi si articola su quattro punti. Per farcela abbiamo bisogno di buone imprese, giovani, opinioni pubbliche informate e una politica che funzioni. Sui giovani, De Benedetti nota un aspetto molto interessante e del tutto trascurato dal dibattito pubblico: la cancellazione di una generazione di alcuni milioni di persone da qualunque ragionamento sul loro destino avviene “nell’assoluta indifferenza di ogni organizzazione di rappresentanza”, partiti, sindacati e – aggiungiamo – anche da parte di qualunque nuovo soggetto che abbia in mente di affacciarsi sul mercato della rappresentanza politica. Sulla politica e sull’informazione, il pamphlettista si comporta come ci si aspetterebbe dal grande editore con passione politica: il futuro è la rete, ma il giornalismo è indispensabile per governare il traffico, per dare un’intonazione al rumore di fondo. Mentre la politica è chiamata all’unico compito sul quale può essere misurata: dare una direzione alla sua comunità. Oggi è questo il versante più fragile su cui queste classi dirigenti in transizione si misurano, in una generale inadeguatezza, nel tentativo di ridefinire rapporti di forza incerti tra la Politica e l’Economia (per esempio la mancata riforma del sistema finanziario internazionale) e conflitti generazionali. Da notare che rispetto all’attualità l’editore di Repubblica non entra nel merito della nuova crisi dei partiti e delle divisioni a sinistra. Si limita a dire che non serve a nessuno una politica che sappia solo discutere di primarie e leggi elettorali.
In fondo però – nonostante alla politica intesa come “regina smarrita” sia dedicata la conclusione del pamphlet – è il ruolo dell’imprenditore, che resta al centro delle riflessioni su quello che può cambiare. CDB è un uomo che rispetta la funzione della politica, ma che in cuor suo crede nel primato della società. Ha una visione borghese classica dell’imprenditore, cita Musil e la sua creatura Paul Arnheim – che piace anche a Giulio Tremonti e Guido Rossi – cita Shumpeter e osserva che nel tragitto simbolico che va dai Buddenbrook a Steve Jobs c’è l’essenza della capacità dell’imprenditore borghese d’occidente di ricominciare daccapo e trasformare se stesso tutte le volte, passandosi il testimone della forza creativa. Forse andrà così ancora una volta, ma questa volta sarà più difficile.