venerdì 22 marzo 2013

Il pauperismo (a volte in compagnia della decrescita felice) ci sta prendendo emotivamente la mano, ma dovremmo tornare a concentrarci sulla crescita economica e sulla condivisione della ricchezza


Il Messaggero 21 marzo

Con un battito di ciglia, abbiamo dimenticato la storia del secolo scorso in cui la ricchezza di tutto l’Occidente è stata la crescita, il più travolgente sviluppo economico e miglioramento delle condizioni di vita della storia dell’umanità: l’impennata della curva del Pil trascinata dalla libertà dei commerci e dalla tecnologia. Ma, invece di riparare le strade della crescita, di aggiornare il nostro modello, all’improvviso ci siamo lasciati travolgere da una (ir)resistibile onda di pauperismo. Suggestionati dalla grande crisi finanziaria del 2008, innestata sul più ingente trasferimento di produzione, lavoro e ricchezza da una parte all’altra del mondo – direzione Cina – dell’evo moderno e contemporaneo, dagli scricchiolii dell’Occidente e da una valanga di risposte oscillanti tra ideologia e simboli.
Il primo papa gesuita sceglie il nome di un santo che si spoglia delle ricchezze accumulate da suo padre. Poi si libera degli ornamenti più imperiali del suo potere e li contestualizza ai tempi duri: l’anello d’oro che diventa d’argento (pochi euro di differenza per una smaliziata scorciatoia valoriale molto enfatizzata dai media ma che non rende di per sé la Chiesa più forte), il crocifisso di ferro, niente ermellino (che però forse era già sintetico), niente mocassini rossi, ma vecchie scarpe risuolate a Buenos Aires. E invoca bontà, tenerezza, attenzione per i più poveri, i deboli, i nudi, i malati, il creato.
Beppe Grillo, leader populista e anticastale, e portavoce della deriva antieconomica che ha investito un pezzo della nostra società, ha subito cercato una parentela con Bergoglio, il papa low cost, che come noi – ha spiegato con modestia – ha scelto di ispirarsi a San Francesco. E sul suo blog ha aggiunto che la politica senza soldi è sublime, così come potrebbe diventare una Chiesa senza soldi.
C’è molta maniera in questo tentativo di infilarsi nella scia delle prime azioni del nuovo papa. Secondo Margaret Thatcher il buon samaritano non diventò così famoso solo per le sue buone intenzioni, ma anche perché era pieno di soldi. Grillo è l’interprete di una idea di decrescita, di suddivisione della torta in parti più piccole. Promette la partecipazione all’impoverimento.
Del resto, una spinta a frenare la ricchezza si avverte in tutta Europa. In Francia Francois Hollande come primo atto post-sarkozista aveva imposto al governo la tassa sui patrimoni sopra il milione di euro. Conseguenze nefaste per il gettito dell’imposta, vicino allo zero, ed effetto psicologico negativo sui residenti francesi. Ma anche un (molto) indesiderato boomerang: perché il ministro delle finanze francesi Jerome Cahuzac, responsabile tecnico della supertassa contro i ricchi, è stato accusato di avere avuto un conto in una banca svizzera per occultare una frode fiscale, e due giorni fa è stato costretto alle dimissioni.
Il mese scorso dalla Svizzera è arrivata una decisione non scontata. Il paese occidentale in cui il capitalismo – più che altrove – assume forme castali sceglie di sottrarre ai comitati remunerazione dei consigli di amministrazione le decisioni sulle retribuzioni dei manager, per affidarle alle assemblee degli azionisti; e dunque per limitare la sperequazione tra i compensi dei vertici aziendali e gli stipendi di base dei dipendenti.  
Sono risposte – spesso emotive – all’emergenza di questo inizio secolo. Lo squilibrio nella distribuzione del reddito, con una disponibilità economica dei ceti medi sempre più scarsa, e con una protezione insufficiente da parte di sistemi di welfare sempre più costosi e ormai sganciati dalla ricchezza novecentesca. La conseguenza è la crescita di un profondo risentimento sociale che dovremmo cercare di tenere sotto controllo. Questo lo ha ricordato nei giorni scorsi anche il pragmatico papa Francesco.
E invece questo risentimento rischia di essere esasperato da soluzioni troppo radicali. In un articolo pubblicato da Micromega – e che riprende le tesi del suo ultimo libro pubblicato in Italia da Einaudi “Il prezzo della diseguaglianza” – Joseph Stiglitz (l’economista cui peraltro si ispira Beppe Grillo, con una buffa storia smentita dal premio Nobel, su una sua partecipazione alla stesura del programma M5S) dice che la situazione globale può migliorare solo se in Occidente il 99 per cento della popolazione si rende conto di essere stata ingannata dal restante un per cento. Una specie di richiamo al radicalismo della lotta di classe, che non sembra esattamente il metodo migliore per riformare nel senso dell’equità il nostro mondo. 
Non sarà “meglio tutti più poveri, ma tutti più uguali” la risposta alla crisi. Bisognerebbe riuscire a fare al tempo stesso due cose: redistribuire il reddito disponibile con riforme eque, e attenuare il senso della distanza tra ricchi e poveri, potenti e sudditi con soluzioni anche simboliche (in fondo, visto con la sensibilità dell’opinione pubblica, il crocifisso di Francesco e il taglio dei costi della politica sono l’alto e il basso di emotività cugine). Ma dovremmo anche provare a riformare le nostre società pensando a come si può ricominciare a crescere economicamente. Quelli che "sarebbe meglio essere tutti un po' più ricchi" vanno meno di moda, ma dovremmo riscoprirli.

Marco Ferrante

mercoledì 20 marzo 2013

Le spese della Camera. Perché – Grillo o non Grillo – rendicontare le caramelle è un esercizio civile. Ma, attenzione, il vero costo nel bilancio della Camera sono stipendi e pensioni di deputati e dipendenti: 800 milioni su un miliardo di euro


Il Messaggero

Rendicontare le caramelle, questo è l’obiettivo dei cittadini M5S che nelle camere – fiato sul collo nemico – saranno lì di guardia alla virtù pubblica. Rendicontare le caramelle non sarà facile, ma è possibile. Prendiamo la Camera dei Deputati. Nelle pieghe di un bilancio da 1,087 miliardi di euro ci sono ampi margini per risparmiare. Sarà bene ricordare però, che la parte più cospicua del bilancio della Camera potrà essere tagliata quasi esclusivamente con provvedimenti di legge, perché riguarda stipendi e pensioni di deputati e dipendenti. Circa 800 milioni di euro, così suddivisi: 161 milioni per indennità e rimborsi dei deputati, 136 per le pensioni dei deputati, 287 milioni per gli stipendi dei dipendenti e 216 per le pensioni dei dipendenti (con molte polemiche sui trattamenti d’oro per tutti i livelli retributivi dal segretario generale ai commessi, in media tre volte e mezzo lo stipendio di uno statale ordinario di pari grado).  
Però, per esempio, dentro questi 800 milioni di euro, risulterebbero abbastanza caramellose le voci sui rimborsi viaggio per i deputati – quasi 11 milioni – e per gli ex deputati (800.000 euro).
Dove i neo eletti M5S troverebbero molto materiale è nella V categoria del I titolo, la spesa per gli acquisti di beni e servizi. È una voce comprimibile senza ricorrere a provvedimenti di legge e vale 163 milioni di euro, cioè il 15% circa del bilancio di Montecitorio. Spiccioli di fronte all’immensità del bilancio pubblico (800 miliardi di euro circa), ma simbolicamente interessanti perché sono una piccola isola di opacità e di spreco.
C’è solo da mettersi al lavoro. 26 milioni di affitto di immobili. 13,7 milioni di spese di manutenzione, che è tradizionalmente una delle voci meno trasparenti nelle spese delle istituzioni, o anche nei bilanci delle grandi società private, perché vi si annidano possibili accordi con i fornitori. Per questo M5S punta a un posto di questore. In questi 13,7 milioni sono compresi – per esempio – 930.000 euro per gli ascensori, 1,2 milioni per i computer e 2,8 milioni per il software (questi vanno aggiunti a 1,2 milioni per l’acquisto di hardware – cioè altri computer – e 8 per l’acquisto di altro software, 9,2 milioni nel complesso messi a bilancio nella spesa in conto capitale). Poi ci sono 4 milioni di spese per l’acquisto di beni e materiali di consumo, tra cui spiccano 420.000 euro per non meglio precisati “materiali di consumo per sistemi informatici”. Alcune spese saranno considerate anacronistiche dalla modernità grillina (molto tablet e adsl): per esempio un milione per servizi vari di stampa. Altre inutili – non solo per loro, ma per chiunque abbia un po’ di buon senso – come i 950.000 euro per le spese di trasporto a favore degli inutilissimi eletti all’estero. Altre spese banalmente castali, come i 400.000 euro per la “formazione linguistica e informatica dei deputati”. Altre caramelle da rendicontare: 100.000 euro di servizi di guardaroba o l’inspiegabile contributo da 400.000 euro per la Fondazione Camera dei Deputati. Materiale altrettanto interessante sono le spese di funzionamento delle commissioni d’inchiesta. Il dibattito sull’utilità di questi organismi dura da molti anni perché la loro attività si sovrappone a quella ordinaria della magistratura; ma alcuni di essi sono pressocchè amatoriali e qualunque costo risulta stravagante. 150.000 euro vanno alla commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e attività illecite a esso connesse (sic), 100.000 euro a quella sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi regionali, 50.000 a quella sui “fenomeni di diffusione delle merci contraffatte e delle merci usurpative in campo commerciale”, dove – peraltro – sarebbe interessante riflettere anche sull’autore della definizione “merci usurpative”. Ovviamente nessuna di queste piccole spese è in sè una tragedia contabile, ma è rappresentativa di un metodo: l’idea che il denaro pubblico non appartenga a nessuno. Resta una considerazione generale che andrebbe fatta. La spesa di Montecitorio è un pezzettino emblematico della spesa pubblica. E la maggior parte della spesa è fatta di retribuzioni e previdenza. Solo lì è possibile modificare le uscite in modo strutturale, perché di solito è lì che si stratificano le iniquità. Il resto è fatto di un frastagliato agglomerato di spese varie, beni strumentali, servizi, investimenti, e anche di caramelle.

Marco Ferrante



domenica 3 febbraio 2013

Il rapporto banche-politica non riguarda solo l'affaire Mps, e non riguarda solo l'Italia. Succede in tutto l'Occidente e non ha a che fare con l'ideologia.

“Too big to fail”, il romanzone non-fiction di Andrew Ross Sorkin sulla crisi del 2008, è anche un lavoro sulle porte girevoli e sui rapporti tra politica e banche. A cominciare dalla vita di Henry – Hank – Paulson già potentissimo capo di Goldman Sachs che arriva al Tesoro negli ultimi due anni e mezzo del secondo mandato di Gorge W. Bush con la notevole dote di 485 milioni dollari di azioni GS, patrimonio da disinvestire. Paulson è un uomo di gusto personale molto parco, tanto che sua moglie Wendy gli suggerisce di restituire al grande magazzino Bergdorf Goodman un inutile cappotto di cashmere. Ma dal punto di vista dei rapporti di sistema la commistione finanza-politica descritta da Sorkin va ben oltre i conflitti d’interesse personali. E diventa un conflitto sistemico, con gli interessi del blocco bancario-finanziario che non sempre coincidono con l’interesse generale e che anzi sembrano prevalere. Charles Ferguson, prima milionario e poi documentarista, rimase sconcertato quando nessuno degli uomini dell’amministrazione Obama accettò di farsi intervistare per il suo “Inside Job” sulla crisi del 2008: in parte timorosi di una specie di gabanellismo internazionale dell’autore, in parte perché consapevoli di essere troppo intrinseci con le banche.
Negli Stati Uniti il rapporto stretto tra finanza e politica in parte dipende da necessità regolatorie (nessun settore è regolato quanto quello bancario), in parte perché è cresciuto il peso della finanza negli equilibri della società e del potere. Paulson viene chiamato al Tesoro perché in quel momento non c’è un altro uomo in America con relazioni migliori delle sue in Cina.
In Europa la relazione ha un’altra origine, un misto di selezione dirigenziale e di utilizzo del credito ai fini del consenso. Ma l’intreccio che noi oggi vediamo moltiplicato e deformato dalla grande crisi finanziaria, in realtà è parte integrante della nostra cultura novecentesca e del regime misto dell’economia continentale. Banche e politica.
Giovanni Malagodi – figlio di Olindo, grande giornalista e senatore giolittiano – entrò in politica a 49 anni dopo aver militato per 25 anni nella Comit di Raffaele Mattioli. A Oriana Fallaci racconta che sin da ragazzo pensava che avrebbe fatto politica: “Ma poi venne il fascismo e ciò mi tolse ogni possibilità di intraprendere quella carriera. Ricordo bene il giorno in cui mio padre disse: «Tu, bisogna che fai qualcos’altro. Magari una cosa non lontana dalla politica, come la banca. Così impari e, quando avrai cinquant’anni e il fascismo sarà finito e avrai messo da parte qualche soldo di liquidazione, potrai entrare in politica»". Poi spiega in cosa si avvicinano il mestiere di banchiere e quello di politico: “Quel dover giudicare le cose nel loro complesso cogliendo l’equilibrio tra le varie parti…”.
Da noi le grandi banche furono un serbatoio di classe dirigente politica. Dalla Comit venivano anche Ugo La Malfa, a lungo segretario del partito repubblicano, e Cesare Merzagora, che fu ministro del Commercio Estero, poi presidente della Popolare di Milano e presidente del Senato (eletto in parlamento da indipendente nella dc). Ma furono anche luogo di colonizzazione: uno dei simboli fu la presidenza della Bnl affidata al responsabile credito del Psi, Nerio Nesi. Su un piano dimensionale diverso, fu intensissimo il rapporto tra la democrazia cristiana e le Casse di Rispamio. Franco Evangelisti, potente numero due andreottiano, diceva che sullo scudo crociato avrebbe visto bene campeggiare il simbolo delle Casse. Ma questa è un’altra storia: la relazione tra credito, politica e territorio, una delle bussole del sistema del potere dc. Casse di risparmio, banche di credito agricolo e cooperativo. Da quella formula di governo del consenso venne poi l’ossessione dei partiti secondo-repubblicani di avere delle banche. Il caso Unipol-Ds, i leghisti di Credieuronord, le traiettorie di Fiorani e di Ponzellini. 
Il consolidamento del rapporto tra credito e comunità locali del resto è un cardine dell’economia europea. Le piccole e medie banche del territorio sono un fattore diffuso. Le banche agricole e le mutue in Francia, le Casse di risparmio spagnole, le banche locali in Olanda e Austria, le Landesbank tedesche (nel mirino di Mario Monti commissario alle concorrenza che imputava loro un regime di aiuti di stato).
Le fondazioni di origine bancaria sono un ibrido italiano. Hanno dato stabilità al sistema bancario e conservato un legame tra banche e territorio. Certo – in alcuni casi – il meccanismo ha lasciato uno spiraglio ai partiti. E se questo è stato evidente in una realtà come Siena - dove a nominare i vertici della Fondazione Mps sono amministrazioni locali con maggioranze dello stesso partito - nelle altre realtà è tutto molto più sfumato. Oggi in Intesa Sanpaolo le fondazioni hanno il 24% del capitale. Il presidente di Compagnia Sanpaolo (9,7%) Sergio Chiamparino, è un ex sindaco Pd di Torino, e il dominus di Cariplo (4,9%), Giuseppe Guzzetti, è un ex presidente democristiano della Lombardia. Ma Compagnia Sanpaolo non è una istituzione collaterale al Pd, e Guzzetti è diventato lui stesso una specie di istituzione bancaria. Lo stesso vale per le fondazioni azioniste di Unicredit (quelle sopra il 2% controllano il 9% complessivo del capitale).
Certo, c’è stata una fase in cui l’Italia, in forte deficit di classe dirigente prodotta dai partiti, ha visto affacciarsi sul crepaccio della politica pezzi di classi dirigenti provenienti dall’economia. Anche dalle banche. Dopo il no di Giovanni Bazoli, fondatore di Intesa Sanpaolo, a Beniamino Andreatta che gli offriva la guida dell’Ulivo, arrivò la stagione dei banchieri democratici, da Luigi Abete a Giuseppe Mussari, da Alessandro Profumo a Corrado Passera. Dei protagonisti di quella stagione solo Passera ha lasciato la banca per tentare l’avventura in politica.


Da Il Messaggero del 1 febbraio 2013