mercoledì 7 dicembre 2011

Craxi e i suoi simboli, Rai5, ore 22,45

E' stato il leader politico italiano più divisivo del dopoguerra. Ma anche i suoi avversari gli hanno riconosciuto lo status di personalità dal grande carisma. Si è conquistato un posto nella storia politica nazionale, ma anche nella società e nell'iconografia collettiva. Bettino Craxi, è il protagonista della prossima puntata di "Icone". 
Del Craxi leader politico, primo presidente del consiglio socialista, si è detto molto in questi anni, e molto è stata analizzata la sua parabola personale. 
Nel corso di questa puntata di Icone si proverà a riflettere sul fenomeno Craxi, non tanto dal punto di vista dell'azione politica, ma da quello della capacità di produrre simboli. Linguaggio, abbigliamento, riferimenti culturali, Garibaldi, l'ottocento, nella vita politica di Craxi tutto diventa simbolico, fino al discorso alla Camera del 1992, al processo Cusani, e anche la scelta finale della sepoltura ad Hammamet. 
Interviste a: Pierluigi Battista, Paolo Cirino Pomicino, Giuliano Ferrara, Marino Bonaiuto, Stefano Rolando, Massimo De Angelis.

Perché la borghesia di De Rita e Galdo va in classifica dei libri

L’eclissi della borghesia
Giuseppe De Rita, Antonio Galdo
Laterza, pagg. 91, euro 14

Classi dirigenti in crisi, élite politiche ed economiche spiazzate dalla grande crisi globale, ossatura sociale debole, partiti fragili, sistema di rappresentanza del lavoro obsoleto. Scomparsa progressiva (ma forse non inesorabile) di una vera classe dirigente borghese.
Quindici anni fa, in un libro intervista Giuseppe De Rita, intervistato da Antonio Galdo, spiegava perché la borghesia italiana stava declinando a causa di una generale e omologante cetomediazzazione del paese. De Rita, sociologo, alla guida del Censis dal 1974, e Galdo, giornalista e scrittore, ritornano sul tema con un pamphlet più ottimista del titolo che hanno scelto: “L’eclissi della borghesia”, appena uscito con Laterza. Rispetto al 1996, l’analisi sulla scomparsa della borghesia introduce altri due elementi di riflessione: la frammentazione individualista della società italiana a cui corrisponde la crescita di una microimprenditorialità priva di una vera identità sociale; e la rivendicazione non negoziabile del benessere famigliare come status immodificabile, finanziato non soltanto dal lavoro e dalla produzione, ma soprattutto dal debito pubblico. Lo Stato si trasforma in ente erogatore per generare consenso. E cioè, il debito pubblico siamo noi, collettivamente. Il ceto medio come massa indistinta e petulante chiede – e ottiene – estensione senza limiti del welfare, assunzioni assistenziali nel pubblico impiego, un sistema pensionistico iniquo (retributivo, pensioni di anzianità molto generose, bassa età pensionabile, eccetera). Qui aggiungiamo che questo fenomeno ha riguardato – e riguarda – trasversalmente la società cetomediatizzata: i privilegi pensionistici dei potenti hanno una logica culturale identica a quelli di chi potente non è, ma comunque prende dalla comunità, intesa come Stato, più di quello che restituisce in termini di coscienza collettiva.
De Rita e Galdo individuano alcuni fattori che hanno bloccato l’evoluzione di un ceto-guida della società italiana. Eccoli in ordine sparso: i partiti universalisti, la selezione relazionale delle leadership, le irresponsabili pretese sociali delle famiglie, e poi – dagli anni ’90 in poi soprattutto – il divario tra ricchi e poveri che aumenta, la ricchezza che si concentra (e i ricchi che si aristocratizzano: va detto che questo fenomeno ha riguardato l’intero occidente), l’avanzata di un movente collettivo fatto di ipersoggettività e affermazione del sé sugellato dal successo politico di Silvio Berlusconi, le privatizzazioni come occasione mancata per irrobustire il capitalismo privato italiano.
Il libro si conclude con una apertura sul futuro. Finisce il ciclo berlusconiano, fuori dai partiti si registra la domanda di nuove forme di partecipazione collettiva, il 26 per cento degli italiani è organizzato in 53.000 associazioni (una specie di Big Society), esiste ancora una riserva di energia nazionale e di virtù civili. Si tratta di riattivarle.
Il ragionamento arriva in un momento propizio alla discussione sulla borghesia, discussione che di solito da noi genera diffidenza. Ma nel dibattito sulla successione a Berlusconi, sulla eccezionalità del governo tecnico, sull’eterna transizione italiana, sulla contrapposizione tra politica e tecnocrazia, c’è un aspetto che forse non è frutto di una coincidenza. Emergono nella crisi economica e istituzionale tre personalità molto analizzate e dibattute in queste settimane e che sono sulla scena pubblica da molti anni, Mario Monti, Mario Draghi e Corrado Passera. Le loro storie, diverse per i mestieri che hanno fatto, hanno dei punti in comune: una formazione tecnica, l’abitudine alla visione generale dei problemi economici, e l’estrazione, un’origine culturale e sociale, evidentemente borghese. Esiste una tradizione italiana di élite tecnocratiche che assumono delle responsabilità nei momenti di crisi. Questa volta, questa élite è chiamata a una scommessa che per le generazioni di chi ha passato i cinquant’anni non si ripresenterà più. E cioè uscire dall’occasionalità, dare a questi sprazzi di borghesia un progetto, una dimensione di carnalità politica.
Il Sole 24 Ore 

venerdì 2 dicembre 2011

Twitter e comunicazione politica. Una domanda di @tigella dopo un tweet di @GiulioTerzi





Riassunto. Augusto Valeriani, @barbapreta, su Twitter invita il ministro degli esteri italiano, @GiulioTerzi, a fare pressione anche via Twitter perché venga lberato un blogger egiziano, @alaa, messo in carcere. Altre persone – sempre su Twitter – intervengono nel dibattito chiedendo al ministro di intervenire.
Sollecitato, @GiulioTerzi effettivamente risponde su Twitter dicendo: seguiamo con attenzione tutti i casi di sequestro, il riserbo è indispensabile nell'interesse dei sequestrati. 
A questo punto Claudia Vago, @tigella, pone una domanda interessante. E cioè: è un bene o un male che un ministro sia presente su Twitter e che risponda ai tweet che gli vengono rivolti? E apre uno spazio di dibattito sul suo blog.

Secondo me il punto è questo. 

Concordo con chi ritiene che la risposta su Twitter di un ministro non possa che essere di circostanza su un caso come quello di una trattativa diplomatica.
Se poi un uomo di governo debba o possa comunicare anche attraverso Twitter è un altro discorso. Direi di sì. È solo una modalità diversa, più rapida e diretta.
In generale, però, mi sembra che tutta la questione della comunicazione politica sia oggi ampiamente sopravvalutata. Intendo dire che nell’idea di comunicazione politica è l’aggettivo – cioè “politica” – a essere preminente e a doversi fare sostantivo. Non può esistere una comunicazione politica senza la politica. La mia sensazione di uomo di mezza età che vive nel giornalismo è che in questo scorcio di contemporaneità, in questa immersione totale nei media, a tutti è sembrato che la prima qualità da richiedere alle leadership fosse la capacità di comunicare. Credo che questo sia stato un errore e sia stato determinato da tante e diverse cause (ma questa è un’altra storia). 

P.s. su questo secondo paragrafo, grazie a @FedericoSarica, direttore e ideatore di @RivistaStudio, ho provato a scrivere sulla rivista un articolo sulla comunicazione politica che partiva dal paradossale caso Obama, dove si sostiene come soprattutto in tempi di crisi, la capacità di comunicare non è sufficiente. Tutto deve partire dalla politica.