domenica 28 ottobre 2012

Secondo CDB per vincere il ns eterno buddenbrookismo ci serve Steve Jobs

Da Il Messaggero del 26 ottobre 2012

Bisognerà chiedere a Pierluigi Bersani e a Matteo Renzi che cosa pensano delle idee di Carlo De Benedetti sul ruolo della politica in una drammatica stagione di crisi economica e sociale. Nella tradizione – da lui sempre nutrita – dell’imprenditore democratico che prende posizione, che esprime i suoi punti di vista e partecipa al dibattito pubblico, CDB pubblica “Mettersi in gioco” (Einaudi, pagg. 78, euro 10,00) un pamphlet in uscita in questi giorni che già dal titolo definisce una linea: solo accettando la sfida del cambiamento, l’Europa può provare ad arginare lo slittamento della sua posizione negli equilibri geo-economici in evoluzione. Secondo De Benedetti la crisi finanziaria (e le sue conseguenze) da cui non siamo ancora usciti “è l’epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i paesi nuovi, che rischia di implicare una marginalizzazione dell’Europa e della sua economia”. Dunque è una crisi che scuote le fondamenta del nostro modo di vivere perché ci rivela che siamo strutturalmente più poveri. Questo vale per tutto l’occidente. Uno dei segni del cambiamento profondo del nostro assetto sociale è l’aumento della disuguaglianza economica: si concentra la ricchezza nelle mani di un numero di individui sempre minore, e aumenta il divario tra i redditi. Paul Kennedy se ne servì per descrivere il declino della società americana (e De Benedetti lo cita); l’apertura della forbice dei redditi è una delle più forti ragioni di autocritica da parte di Robert Reich, già segretario al lavoro di Bill Clinton, nel suo Supercapitalismo, molto amato anche in Italia dai quei riformisti critici della Terza Via.
De Benedetti dice che questa divaricazione tra ricchi e poveri porterà a una lotta forsennata e globale per il lavoro. Mancano all’appello 1,8 miliardi di posti di lavoro nel mondo. I paesi che non sapranno dare risposte al problema del lavoro falliranno. La principale risorsa su cui dovremmo cercare di investire è l’innovazione. Un terreno su cui l’Italia è in netto ritardo rispetto al resto dei paesi avanzati. “Oggi solo il 30% delle medie imprese italiane opera in settori ad alta e media tecnologia, contro il 42,6% di quelle tedesche. La spesa per ricerca e sviluppo in Italia si attesta all’1,2% del Pil contro il 2,3% della media dei paesi Ocse”.
Questa è l’analisi. La proposta per uscire dalla crisi si articola su quattro punti. Per farcela abbiamo bisogno di buone imprese, giovani, opinioni pubbliche informate e una politica che funzioni. Sui giovani, De Benedetti nota un aspetto molto interessante e del tutto trascurato dal dibattito pubblico: la cancellazione di una generazione di alcuni milioni di persone da qualunque ragionamento sul loro destino avviene “nell’assoluta indifferenza di ogni organizzazione di rappresentanza”, partiti, sindacati e – aggiungiamo – anche da parte di qualunque nuovo soggetto che abbia in mente di affacciarsi sul mercato della rappresentanza politica. Sulla politica e sull’informazione, il pamphlettista si comporta come ci si aspetterebbe dal grande editore con passione politica: il futuro è la rete, ma il giornalismo è indispensabile per governare il traffico, per dare un’intonazione al rumore di fondo. Mentre la politica è chiamata all’unico compito sul quale può essere misurata: dare una direzione alla sua comunità. Oggi è questo il versante più fragile su cui queste classi dirigenti in transizione si misurano, in una generale inadeguatezza, nel tentativo di ridefinire rapporti di forza incerti tra la Politica e l’Economia (per esempio la mancata riforma del sistema finanziario internazionale) e conflitti generazionali. Da notare che rispetto all’attualità l’editore di Repubblica non entra nel merito della nuova crisi dei partiti e delle divisioni a sinistra. Si limita a dire che non serve a nessuno una politica che sappia solo discutere di primarie e leggi elettorali.
In fondo però – nonostante alla politica intesa come “regina smarrita” sia dedicata la conclusione del pamphlet – è il ruolo dell’imprenditore, che resta al centro delle riflessioni su quello che può cambiare. CDB è un uomo che rispetta la funzione della politica, ma che in cuor suo crede nel primato della società. Ha una visione borghese classica dell’imprenditore, cita Musil e la sua creatura Paul Arnheim – che piace anche a Giulio Tremonti e Guido Rossi – cita Shumpeter e osserva che nel tragitto simbolico che va dai Buddenbrook a Steve Jobs c’è l’essenza della capacità dell’imprenditore borghese d’occidente di ricominciare daccapo e trasformare se stesso tutte le volte, passandosi il testimone della forza creativa. Forse andrà così ancora una volta, ma questa volta sarà più difficile.

venerdì 7 settembre 2012

Il tormentatissimo mignolo sinistro di Maria Sharapova

In fondo c'è sempre qualcosa che rende umani gli umani

martedì 10 luglio 2012

La spending review è un'occasione per riflettere su come va cambiato il welfare


La spending review appena avviata dal governo Monti sarà una manovra correttiva occulta come paventa Pierluigi Bersani? Oppure potrebbe diventare il primo atto di una resa dei conti franca con il nostro welfare? Lo stato sociale così come siamo stati abituati a pensarlo nel dopoguerra – una macchina che produce spesa con pochi limiti – non è più possibile al giorno d’oggi.
“Certamente il welfare va rivisto, con tutto il suo impianto culturale – dice Stefano Liebman, professore di diritto del Lavoro alla Bocconi – Ma intanto la spending review interviene su una cosa che precede qualunque riforma possibile, e cioè l’indiscutibile inefficienza della nostra macchina pubblica”.







































Gli stati dell’eurozona erogano spesa pubblica per quasi 5.000 miliardi di euro ogni anno. L’Italia spende 800 miliardi. Una parte di questo denaro è debito, cioè soldi già spesi. Il debito pubblico cumulato dell’eurozona (17 paesi) è pari a circa 8.200 miliardi, l’87,4 per cento del pil complessivo dell’area. Mentre il debito cumulato dei 27 paesi dell’Unione europea è di 10.300 miliardi di euro, l’82,2 per cento del pil dei 27. Il debito è concentrato soprattutto nei grandi paesi: La Germania sopra i 2.000 miliardi, l’Italia verso i 2.000, la Francia quasi 1.700, il Regno Unito, quasi 1.500 miliardi.
A che cosa è servito questo debito? Soprattutto a pagare stipendi, finanziare i sistemi pensionistici e acquistare beni e servizi per erogare prestazioni a favore dei cittadini. Una parte di questi soldi serve anche a pagare le spese per gli interessi sul debito pre-esistente che mano mano si accumula. Quella per gli interessi è una cifra molto vicina al denaro destinato a finanziare gli investimenti pubblici. Nei paesi dell’eurozona nel 2009 il 5,6 per cento della spesa pubblica è servita alla spesa per interessi e il 5,5 agli investimenti. L’aggregato principale resta quello delle prestazioni sociali (pensioni in primis) che assorbe intorno al 46 per cento della spesa.
Ma nel corso degli anni la spesa del welfare è cambiata. Diamo un’occhiata all’Italia. Dal 1951 al 2010 la nostra spesa pubblica è passata dal 23,6 per cento del pil al 51,2 per cento del Pil. Intanto – come spiega il rapporto Giarda – si è ridotto il peso delle voci tradizionali dell’intervento pubblico, la fornitura di servizi pubblici, le spese di sostegno alle famiglie e la spesa per investimenti. Complessivamente queste tre componenti erano l’81,9 per cento della spesa nel 1951, nel 2010 sono diventate il 57%. Nel frattempo è cresciuta invece la spesa pensionistica. Era il 10% del totale della spesa nel 1951, oggi è il 30%.
Anche la spesa sanitaria si è ridotta e anche come abbiamo visto in questi giorni è una delle voci su cui si interviene più spesso. Osserva Roberto Artoni, professore di scienza delle finanze alla Bocconi e grande esperto di welfare: “La sanità italiana non costa molto. Negli anni semmai si è cercato di renderla inefficiente, ma non è stato inventato un sistema universalistico altrettanto efficace del sistema sanitario pubblico. Direi lo stesso del sistema pensionistico – magari utilizzato impropriamente, penso per esempio ai prepensionamenti utilizzati sostanzialmente come forme di sostegno implicito alla disoccupazione. Ma non esiste un sistema pensionistico di mercato che abbia dato buone prove”.
Certo, è un sistema previdenziale pubblico che è cresciuto con una serie di incongruità, sprechi, spesso ingiustizie. Un esempio per tutti: i baby pensionati del settore pubblico, cioè coloro i quali sono andati in pensione con meno di vent’anni di contributi (senza un vincolo d’età minima per il pensionamento). Sono oltre mezzo milione. Sono il 2% del totale dei pensionati, ma costano più del 4% della spesa pensionistica (nove miliardi e mezzo l’anno su un totale di 240 miliardi). Si calcola che riceveranno in assegni pensionistici mediamente tre volte quanto hanno versato in contributi.
Osserva Liebman: “Il problema principale è che il welfare novecentesco è costruito su un modello di lavoro stabile. Noi dobbiamo costruire un sistema che tuteli il lavoratore nelle difficoltà del mercato. Non è detto che un meccanismo di tutele per i disoccupati temporanei sia meno caro del sistema che crea i baby-pensionati. L’obiettivo di un nuovo welfare dovrebbe essere: non creare sacche di iniquità. Ci sono paesi in cui il welfare è fallito ben prima della crisi del taylorismo, è fallito quando è diventato clientelismo come in Italia e in Grecia”.
Pur con molte iniquità redistributive abbiamo potuto sostenere un welfare invasivo. Ma nel frattempo è cambiato qualcosa. È finita la guerra fredda, innanzitutto. Il Pil del mondo ha trovato nuovi equilibri. Un pezzo si è spostato in Asia. Poi è arrivata la grande crisi.  Le cause di questa grande crisi sono molte e interconnesse. Ma insieme agli effetti della crisi finanziaria innescata dai subprime e insieme alla recessione (cioè la mancata crescita), il debito pubblico è diventata una delle cause della crisi europea. Crisi fiscale, monetaria e politica. “Così – dice Alberto Giovannini, già professore di politica economica a Columbia University – è chiaro che questo tipo di stato sociale non possiamo più permettercelo, debito compreso”. Non basterebbe ridurre il perimetro d’azione del welfare? “Il nostro sistema di welfare è figlio di una crescita economica e demografica del dopoguerra che oggi non c’è più. E non possiamo più permetterci cose troppo ambiziose. I rimedi, sistemi di redistribuzione devono fare i conti con la realtà. Faccio un esempio: con le novità tecnologiche, con internet, il vecchio servizio postale universalistico è ancora necessario? C’è un elemento culturale con cui fare i conti. Lo stato è stato il soggetto dominante del ‘900. Oggi però forse sarebbe più utile e conveniente per riequilibrare i pesi lasciare allo stato solo quello che la società e il mercato non riescono a fare”.
Il welfare nasce alla fine del XIX secolo, ma in tutta la sua forza persuasiva e incantatrice è una struttura novecentesca, rafforzatasi per contrastare gli effetti della grande crisi del ’29. Strano, ma la grande crisi nata nel 2007 spinge il ragionamento nella direzione opposta, verso la riduzione del Welfare. È’ un paradosso? Risponde ancora Giovannini: “No non è un paradosso. È che per sessant’anni abbiamo esagerato e tutto va ridimensionato. La grande macchina che abbiamo costruito per erogare servizi mangia un pezzo della spesa pubblica solo per nutrire se stessa. Per sopravvivere”. 
Naturalmente visto dal paese in cui una siringa ha costi diversi asseconda della latitudine è tutto più drammatico e pessimistico. Ci sono stati sociali più efficienti e più equilibrati. Per esempio, la Finlandia – dove lo stato sociale funziona – spende in percentuale più dell’Italia in stipendi pubblici (intorno al 27% per cento, contro il 22 italiano), più in spesa per l’acquisto di beni e servizi e meno per le prestazioni sociali. Ma questo riguarda le scelte politiche dei singoli stati, la composizione sociale, la cultura della spesa pubblica. Per restare al caso finlandese il rapporto tra debito e pil è del 47,2 per cento contro il 120 per cento dell’Italia.
In generale, però, ci sono elementi che accomunano in paesi in questa fase. Per esempio tutte le manovre correttive nei paesi europei hanno toccato inevitabilmente il pubblico impiego. Si è molto parlato dei rigidi tagli greci, ma in tutti i paesi – dall’Olanda alla Germania fino all’Irlanda, dal Regno Unito alla Spagna – i costi del pubblico impiego sono sottoposti a una revisione. In Italia c’è un disegno di legge delega che riguarda la difesa e che va in una direzione molto chiara, 40.000 militari in meno nei prossimi dieci anni (conseguenza peraltro tardiva della riforma del modello di difesa di 12 anni fa). In generale si comincia a parlare seriamente di una riduzione tra il 5 e l’8 per cento della massa di dipendenti pubblici. C’è chi teme che questo movimento sul pubblico impiego sia in parte oggetto di un pregiudizio e che possa dare vita a una specie di individuazione di una categoria come capro espiatorio. I dipendenti pubblici che pagano la decadenza del welfare. Liebman prova a razionalizzare: “Nel settore privato, i dipendenti scelti dall’imprenditore sono esattamente quelli che gli servono. Nel settore pubblico siamo soggetti a un regime più largo. Inoltre da noi il pubblico impiego è diventato anche una forma di ammortizzatore sociale e – come in Grecia – una forma di aggregazione del consenso. In Olanda i dipendenti pubblici sono forse più del necessario, ma forniscono un servizio eccellente. Ma se nasce l’esigenza di contenere i costi, anche lì si cerca di tagliare”. Il pubblico impiego da noi è diventato un simbolo perché è stato oggetto di eccessi e di irresponsabilità totale. Dice Giovannini: “Il punto è che la regione Sicilia non può avere lo stesso numero di dipendenti di Downing Street”. Non è solo questione di spending review, evidentemente. La spesa pubblica – generata dalle imposte e dai contributi di tutti – non dovrebbe mai dare la sensazione di essere iniqua.

Il Messaggero, 8 luglio