Da Il Messaggero del 26 ottobre 2012
Bisognerà
chiedere a Pierluigi Bersani e a Matteo Renzi che cosa pensano delle idee di
Carlo De Benedetti sul ruolo della politica in una drammatica stagione di crisi
economica e sociale. Nella tradizione – da lui sempre nutrita –
dell’imprenditore democratico che prende posizione, che esprime i suoi punti di
vista e partecipa al dibattito pubblico, CDB pubblica “Mettersi in gioco”
(Einaudi, pagg. 78, euro 10,00) un pamphlet in uscita in questi giorni che già
dal titolo definisce una linea: solo accettando la sfida del cambiamento,
l’Europa può provare ad arginare lo slittamento della sua posizione negli
equilibri geo-economici in evoluzione. Secondo De Benedetti la crisi
finanziaria (e le sue conseguenze) da cui non siamo ancora usciti “è
l’epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i
paesi nuovi, che rischia di implicare una marginalizzazione dell’Europa e della
sua economia”. Dunque è una crisi che scuote le fondamenta del nostro modo di
vivere perché ci rivela che siamo strutturalmente più poveri. Questo vale per
tutto l’occidente. Uno dei segni del cambiamento profondo del nostro assetto
sociale è l’aumento della disuguaglianza economica: si concentra la ricchezza
nelle mani di un numero di individui sempre minore, e aumenta il divario tra i
redditi. Paul Kennedy se ne servì per descrivere il declino della società
americana (e De Benedetti lo cita); l’apertura della forbice dei redditi è una
delle più forti ragioni di autocritica da parte di Robert Reich, già segretario
al lavoro di Bill Clinton, nel suo Supercapitalismo, molto amato anche in
Italia dai quei riformisti critici della Terza Via.
De
Benedetti dice che questa divaricazione tra ricchi e poveri porterà a una lotta
forsennata e globale per il lavoro. Mancano all’appello 1,8 miliardi di posti
di lavoro nel mondo. I paesi che non sapranno dare risposte al problema del
lavoro falliranno. La principale risorsa su cui dovremmo cercare di investire è
l’innovazione. Un terreno su cui l’Italia è in netto ritardo rispetto al resto
dei paesi avanzati. “Oggi solo il 30% delle medie imprese italiane opera in
settori ad alta e media tecnologia, contro il 42,6% di quelle tedesche. La
spesa per ricerca e sviluppo in Italia si attesta all’1,2% del Pil contro il
2,3% della media dei paesi Ocse”.
Questa
è l’analisi. La proposta per uscire dalla crisi si articola su quattro punti.
Per farcela abbiamo bisogno di buone imprese, giovani, opinioni pubbliche
informate e una politica che funzioni. Sui giovani, De Benedetti nota un
aspetto molto interessante e del tutto trascurato dal dibattito pubblico: la
cancellazione di una generazione di alcuni milioni di persone da qualunque
ragionamento sul loro destino avviene “nell’assoluta indifferenza di ogni
organizzazione di rappresentanza”, partiti, sindacati e – aggiungiamo – anche
da parte di qualunque nuovo soggetto che abbia in mente di affacciarsi sul
mercato della rappresentanza politica. Sulla politica e sull’informazione, il
pamphlettista si comporta come ci si aspetterebbe dal grande editore con
passione politica: il futuro è la rete, ma il giornalismo è indispensabile per
governare il traffico, per dare un’intonazione al rumore di fondo. Mentre la
politica è chiamata all’unico compito sul quale può essere misurata: dare una
direzione alla sua comunità. Oggi è questo il versante più fragile su cui
queste classi dirigenti in transizione si misurano, in una generale
inadeguatezza, nel tentativo di ridefinire rapporti di forza incerti tra la
Politica e l’Economia (per esempio la mancata riforma del sistema finanziario
internazionale) e conflitti generazionali. Da notare che rispetto all’attualità
l’editore di Repubblica non entra nel merito della nuova crisi dei partiti e
delle divisioni a sinistra. Si limita a dire che non serve a nessuno una politica
che sappia solo discutere di primarie e leggi elettorali.
In
fondo però – nonostante alla politica intesa come “regina smarrita” sia
dedicata la conclusione del pamphlet – è il ruolo dell’imprenditore, che resta
al centro delle riflessioni su quello che può cambiare. CDB è un uomo che
rispetta la funzione della politica, ma che in cuor suo crede nel primato della
società. Ha una visione borghese classica dell’imprenditore, cita Musil e la
sua creatura Paul Arnheim – che piace anche a Giulio Tremonti e Guido Rossi –
cita Shumpeter e osserva che nel tragitto simbolico che va dai Buddenbrook a
Steve Jobs c’è l’essenza della capacità dell’imprenditore borghese d’occidente
di ricominciare daccapo e trasformare se stesso tutte le volte, passandosi il
testimone della forza creativa. Forse andrà così ancora una volta, ma questa
volta sarà più difficile.