venerdì 19 luglio 2013

Breve ritratto collettivo dei Ligresti (con il contributo decisivo di una galleria di immagini Google e della pagina Facebook di Jonella, che rende quasi superflue le informazioni dalle amiche e la mediazione di chi scrive).

Strano il destino di una famiglia arrestata in blocco. O per la vita che aveva condotto prima, o per il modo di indagarla dopo. Adesso sono i Ligrestos. Fino a due anni fa, erano stati una famiglia ricca, già sufficientemente discussa e abbastanza potente con un classico percorso geografico&sociale in una sola generazione: Salvatore è nato a Paternò, rapporti famigliari con i Virgillitto (i protettori di Raffaele Ursini di Liquigas) e con i La Russa. Il padre di Ignazio La Russa era stato amico e mentore di Salvatore. Nella generazione successiva, Ignazio aveva officiato la cerimonia civile nel giorno del matrimonio a Taormina di Giulia. Giulia Ligresti è la prova di un transito generazionale. Suo padre ostensivamente meridionale, a partire dal dettaglio della cravatte sotto la cintura, lei bionda, occhi azzurri, minuta, composta, capelli raccolti dietro le orecchie, sorrisi nel complesso molto misurati in una galleria di immagini Google che descrivono istantaneamente la sua dimensione pubblica. Il fisico sportivo, la vela, e – al posto di quelle cravatte – un marchio della moda, Gilli, fondato, e poi liquidato, per realizzare borse da lei stessa disegnate che non incontrarono un grande successo, ma che testimoniavano un certo interesse per lo stile.   
Gli osservatori neutrali descrivono questa transizione della bionda Giulia come una legittima aspirazione sociale: frequentare il mondo rivisitato delle case del Cappuccio, cioè i luoghi di quella che era stata la Milano borghese molto ricca e chiusa all’esterno, adesso che il Cappuccio e quelle case non sono più presidiati soltanto da quella borghesia.
Stampa meno favorevole per il figlio maschio Paolo, con interessi immobiliari in Svizzera, passione per le macchine sportive e per il Milan, il quale negli ultimi tempi si dichiarava più combattivo di suo padre, e fino all’ultimo diceva in giro che non si sarebbe fatto strappare il gruppo assicurativo dalle mani. Popolarità relativa anche per Jonella, la maggiore, la ragazza appassionata di equitazione. Quattro cavalli costati 6 milioni di euro nel 2008 a una società di famiglia. In un elenco di richieste avanzato a Mediobanca per trattare una buonuscita da Fonsai c’era anche la disponibilità di un albergo per le vacanze. Nel 2007, Jonella Ligresti fu protagonista di un caso molto bizzarro: una laurea honoris causa conferita dall’Università di Torino, revocata sei ore dopo dal ministro dell’Università Fabio Mussi per insussistenza dei requisiti. Certo, non fu colpa della laurenda, ma dell’ateneo che non tenne conto del preventivo parere contrario del ministro, il quale aveva cominciato una battaglia contro quei riconoscimenti.
Le amiche, invece, raccontano le ragazze Ligresti in un altro modo. Molti cavalli, ovviamente, e molto sport, ma anche molti aiuti per le Ong. Senz’altro abituate al benessere, forse un po’ viziate dai voli privati, ma dopotutto ok. “È chiaro che hanno sempre fatto solo e soltanto quello che diceva il padre”, è la tesi di chi le conosce. Come dire che dietro l’esibizione della managerialità di seconda generazione, c’era innanzitutto un genitore molto protettivo. Si vedrà nei prossimi giorni.
Ma la cosa interessante della storia dei Ligresti in queste ore (segno dei tempi moderni, e di come cambia il modo di raccontare le vite degli altri attraverso la mediazione di conoscenti, amici e avversari) è il fatto che una parte di questa storia – compresi i messaggi di sostegno e solidarietà degli amici (“coraggio non è da te cedere”, “Jo… Testa alta!!! Ti voglio bene!” – è su Facebook, un diario pubblico di quella che un tempo era la vita privata. E fa molta impressione nel giorno di provvedimento di restrizione, vedere passeggiate su dune desertiche (un post di Giulia: “in Libia una delle mie corse più belle!”), figli, alberi di natale, cavalli, compleanni, cotillon, massime (sul profilo di Jonella: “lascia che tutti sappiano che oggi sei più forte di ieri”). Sic transit gloria Facebook.

Marco Ferrante

Da Il Messaggero del 18 luglio 

giovedì 11 luglio 2013

Più che un Aventino è un Quarantotto, anzi un Ambaradan

Il Messaggero


Per un paio di millenni l’Aventino – come fatto politico – è stata una cosa seria. La Secessio plebis era la tecnica di lotta del colle plebeo Aventino contro il dirimpettaio colle patrizio Palatino. Una specie di serrata e di abbandono temporaneo della città cui cercò di trovare una soluzione Menenio Agrippa (utilità delle scuole medie) con la metafora del corpo umano per spiegare il funzionamento di una società. Sull’Aventino – come rifugio di parte plebea – cercò scampo dalle truppe consolari Caio Gracco, figlio di Cornelia, che poi morì sul Gianicolo.
L’Aventino, come luogo mitico della protesta, fu riesumato all’inizio del ventennio fascista nei giorni dell’omicidio Matteotti. L’opposizione, nonostante il parere contrario di Antonio Gramsci, abbandona l’aula e da lì inizia un processo che porterà al regime. L’Aventino diventa nell’immaginario il luogo di un errore politico, ma anche di una testimonianza anti-tirannica.
La questione aventiniana – come antefatto di un successivo luogo comune – tornò ad affacciarsi alla vita pubblica settant’anni dopo, alla fine della prima repubblica. Quando il leader dei radicali Marco Pannella lanciò l’iniziativa degli autoconvocati: 230 deputati, alcuni colpiti dagli avvisi di garanzia, si autoconvocano nel tentativo di salvare la giovane legislatura travolta dalla tempesta tangentopolista. Fu un Aventino di fatto. Era la primavera del 1993. Non dette i risultati sperati, e cominciò la seconda repubblica.
Due anni dopo si registrò un nuovo caso: una specie di arzigogolo fusionista in cui nei richiami dei protagonisti convissero l’Aventino e la Pallacorda, citazione pre-rivoluzionaria (francese) a cura del parlamentare di Forza Italia Pietro Di Muccio. Serviva per spiegare il senso di un’assemblea congiunta dei parlamentari del Polo per protestare contro il governo Dini. (Al capo di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini non piacque, invece, il riferimento all’Aventino che altri utilizzarono).
Dopodichè, negli anni, è stato tutto un ricorso formalistico all’espressione secessionista. Ogni occasione è stata buona per minacciare forme di aventinismo, come forma retorica, giornalistica, sempre un po’ vittimistica. Umberto Bossi se ne appropria nel 1996 quando ancora punta all’indipendenza della Padania. Successivamente, qualcuno schekera Aventino e Non expedit per commentare una dichiarazione del vescovo Alessandro Maggiolini, il quale, nel 1998 suggerisce ai deputati del Partito popolare di lasciare il governo di centro sinistra in difesa dei valori cattolici. Per tutti gli anni 2000 destra e sinistra quando sono all’opposizione prima o poi minacciano un Aventino. È un riflesso condizionato, una prova sottintesa del carattere frontista di un sistema bipolare che non ha imparato a dialogare, e dove l’opposizione si sente sempre alle strette.
L’ultima volta che la questione aveva preso piede era stato nella primavera del 2011. Volevano fare l’Aventino i deputati pidini che su proposta di Rosy Bindi spingevano per un atto eclatante di protesta contro la cosiddetta prescrizione breve. Bindi dette un’intervista a Repubblica per sostenere la tesi del grande gesto. Poi non se ne fece niente, la maggioranza si incartò e la prescrizione breve non passò. Con grande soddisfazione politica degli anti-aventinisti, memori dell’insegnamento di Gramsci.
L’anno dopo nel Pd ci fu un rigurgito aventiniano in occasione del dibattito al senato sulle riforme costituzionali. E di Aventino implicito in un certo senso si è parlato anche in occasione del congelamento dei voti M5S deciso da Bepe Grillo all’indomani delle elezioni generali di febbraio scorso non solo per la composizione del governo e per il Quirinale, ma anche per le presidenze di Camera e Senato. Occasione in cui erano stati quelli del Pdl a minacciare l’Aventino perché il centrosinistra aveva votato presidenti non condivisi dall’opposizione.
Così, Aventino è ormai un luogo comune. E siccome, inoltre, di solito non dà risultati – se non cattivi – nel nostro immaginario il suo significato rischia di trasformarsi sempre di più in altre espressioni figurate. Perché nel lessico politico italiano l’Aventino è sempre più simile a un Quarantotto (nel senso di una grande confusione) a una Caporetto (sconfitta evitabile) o – peggio del peggio – a un’Ambaradan (sconfitta e grande confusione). 

Marco Ferrante