sabato 19 maggio 2012

LCdM e (entro settembre) la fisionomia dell'offerta politica moderata

Questione Montezemolo cresce. Qui Salvatore Merlo sul Foglio spiega i rapporti tra LCdM e il Cav., inseguimenti, annusamenti, corteggiamenti, disismulazioni. Oggi, Pigi Battista sul Corriere gli dice da un fronte amico: Forza Luca, se devi uscire allo scoperto, fallo subito. Incognite: innanzitutto la tenuta dell'intesa con Berlusconi; in secondo luogo le resistenze di un pezzo dell'apparato pidiellino (soprattutto ex forzisti) che è stato per anni ostile a Montezemolo e che oggi deve comunque come minimo dare la sensazione di difendere il ruolo di Alfano; resterebbero sullo sfondo il problema Passera da integrare nel progetto; e – infine – la posizione di Casini che oggi dice: non rinuncio alle mani libere. 
Sarà un'estate di movimento, entro settembre l'offerta politica moderata dovrà per forza darsi una fisionomia. 

mercoledì 16 maggio 2012

giovedì 10 maggio 2012

Tasse e rivoluzioni (e qualche film), di Rico Capone





martedì 8 maggio 2012

Ritratto. Perché Agnelli ha vinto lo scudetto

Pubblicato da Panorama il 2 novembre dell'anno scorso. È un profilo del presidente della Juventus. Si spiega perchè ha vinto lo scudetto e perché la questione Del Piero ha preso già all'inizio della stagione la piega degli addii.


Andrea Agnelli, 37 anni, presidente della Juventus, protagonista di questa prima parte del campionato, si è ritrovato al centro delle polemiche per  il caso Alessandro Del Piero, per aver ricordato che il capitano è all’ultima stagione. Il popolo juventino è un po’ confuso. Considera Agnelli il leader della riscossa anti-interista, ma il capitano è la bandiera. Striscia la notizia ha intervistato Alex, che ha detto: “di solito non si fa così”.
In realtà tutto era noto. Alla firma del contratto entrambe le parti avevano spiegato: questo è l’ultimo. Una fonte interessante, cioè il sito non ostile al capitano sin dal titolo – uccellinodidelpiero.com – minimizza. Agnelli aveva solo salutato il capitano davanti all’assemblea della Juve. Ma nel mondo dei tifosi più informati, dei blogger d’area, degli juventinologhi, l’interpretazione maggioritaria è la seguente. Agnelli ne ha sempre riconosciuto i meriti sportivi, ma è guardingo nei confronti del capitano perché gli interessa innanzitutto la tenuta della squadra e dello spogliatoio. Del Piero, ragazzo intelligente, è un attento gestore del suo ruolo dentro la Juve. Con modi felpati, accorti, cardinalizi, con una certa educata spietatezza in tutti questi anni ha saputo tutelare se stesso e la sua leadership dentro lo spogliatoio. Agnelli ha in mente un modello di gestione mutuato dal passato. Proprietà forte, management che comanda, rapporto di fiducia con l’allenatore, connessione con un popolo di dodici milioni di tifosi. I giocatori, invece, fanno i giocatori. Nelle grandi società è sempre stato così. “Le stelle non sarebbero stelle senza la squadra”, ha detto a novembre del 2010.
I rapporti con Del Piero sono in linea con il metodo degli ultimi mesi. Tenere la tifoseria, innanzitutto restituendole l’orgoglio dei 29 scudetti (prendersela con i detestati Moratti è servito) e preservare l’allenatore da pressioni improprie.
Figlio di Umberto, presidente della Juventus da un anno e mezzo, AA si è sempre comportato come una persona disponibile al combattimento. Per farsi un’idea dell’indole, un dettaglio: sulla pavimentazione intorno al nuovo stadio sono state sovrimpresse cinquanta stelle dedicate ad altrettanti campioni juventini di tutti i tempi. I tifosi possono comprare uno spazio nella stella per incidere il loro nome. Agnelli ha scelto per sé Paolo Montero, simbolo della Juve da battaglia, 4 scudetti e l’Intercontinentale.
Questo spirito lo ha tirato fuori nello scontro con l’Inter, e anche nella sua vita precalcistica. Nel 2005, per esempio, scelse una strada abbastanza solitaria nella sua famiglia. Si dichiarò contrario al cosiddetto equity swap, l’operazione finanziaria che neutralizzava l’ingresso delle banche nel capitale della Fiat e conservava la famiglia Agnelli-Elkann sopra la soglia del 30 per cento nell’azionariato. Lo disse in un’intervista al Foglio. Ne nacque una freddezza tra il ramo Elkann e gli eredi di Umberto, in cui si rifletteva – in una dimensione più esplicita, meno mitica e meno letteraria – lo strascico dei difficili rapporti che in vita avevano avuto Gianni e Umberto, i quali si volevano molto bene, ma erano separati da quattordici anni di età, in una relazione simile a quella di un padre e di un figlio: per esempio, fu Gianni a regalare il primo motorino a Umberto. Il dissidio del 2005 si è ricomposto lentamente, fino all’epilogo un po’ simbolico dell’anno scorso. Il completamento del pieno ricambio generazionale nella prima famiglia del capitalismo italiano: mentre John Elkann diventava presidente della Fiat, chiudendo il processo di successione a cui pensava Gianni, AA andava alla presidenza della Juventus. 
È il quarto presidente Agnelli. Prima di lui il nonno Edoardo, inventore dello stile Juve. Poi lo zio Gianni, e infine suo padre, presidente della prima stella, dal 1955 al 1962. Umberto riprenderà le redini negli anni 90, quando da capo delle attività finanziarie di famiglia – insieme a Moggi, a Giraudo e Bettega, la molto discussa triade – costruirà la squadra delle tre finali consecutive di Champions (una vinta) e della vittoria in Intercontinentale, forse la più forte Juventus di sempre. 
Andrea aveva un rapporto forte con il padre: educazione borghese, senso del dovere, disciplina. Una volta raccontò che siccome a casa sua si andava a tavola alle 19.45, lui aveva diritto a una franchigia di 15 minuti ma doveva telefonare entro 5 minuti dalla scadenza, nel caso in cui non facesse in tempo ad arrivare. Un’altra volta ha spiegato che Umberto aveva insegnato ai figli a esprimere sempre e con franchezza la propria opinione.
A cavallo tra i ventitre e i ventinove anni, ha perduto il fratello maggiore, Giovanni Alberto, morto di tumore nel dicembre ‘97 e suo padre, proprio mentre – nel pendolo degli equilibri di casa Agnelli – aveva avviato l’azione di rilancio della Fiat di cui era diventato presidente solo alla fine. “Ti prende un senso di impotenza”, disse Andrea in una intervista al Sole 24 Ore.
Nel complesso reticolo famigliare, è l’unico maschio a chiamarsi Agnelli (ha una figlia nata dal matrimonio con Emma Winter, aspettano un bambino in arrivo a dicembre). Rappresenta un ramo famigliare con una consistenza paragonabile a quella della precedente generazione. Una quota di oltre il 10 per cento nell’accomandita, che controlla a cascata il gruppo industriale, e un notevole patrimonio personale.
Ha un fondo, Lamse, con cui ha fatto investimenti in finanza, private equità, energia, e anche nell’editoria. Stava per entrare nell’avventura di Lettera 43 con Paolo Madron, poi non se fece nulla (curiosità, in Lettera 43 c’è un giovane Moratti, Maurizio Angelo). Nell’editoria AA è presente con Michele Dalai e Davide Dileo, quello dei Subsonica. Hanno fondato insieme Add, la casa editrice che in Italia ha pubblicato il pamphlet bestseller “Indignatevi” di Stephane Hessel, e il cui eclettico catalogo va da Jovanotti a Scalfaro&Caselli fino Pavel Nedved, consigliere d’amministrazione bianconero e – tra memorie e auspici – ultimo pallone d’oro juventino. 

@MarcoFerrante

lunedì 7 maggio 2012

persone e fatti di questo w-e


1. Declino di Carlà. Anche se non si sa mai.
2. Arriva la Valérie, che già frivoleggia da sinistra, ponendo il problema del trasferimento all'Eliseo non già come premio alle ambizioni e come simbolo del potere, ma come imperativo logistico: andremo a vivere all'Eliseo (tragedia!) perché se no, l'autorità di polizia sarebbe costretta a transennare la strada dove oggi abitiamo. Dunque grandi promesse di luoghi comuni, però anche lei è piuttosto fascinosa.
3. Ascesa di Andrea Agnelli, vincitore di uno scudetto inatteso e leader di 36 anni.
4. Il caso Del Piero (caso romanzesco, ok, ma anche un po' noioso).
5. Il caso Allegri, noiosissimo.
6. I rom a Pescara.
7. Alba Dorata in Grecia (con l'accessorio Putin).
8. Si attendono i risultati delle amministrative.

mercoledì 2 maggio 2012

Breve profilo di Enrico Bondi, che fu scoperto da Romiti (ma Romiti non ne parla nel suo libro con Madron)


Il Messaggero, 1 maggio

Enrico Bondi è un tecnico persino per i tecnici. Chimico di formazione, è un uomo dei numeri. Ordinato, tenace, risanatore, perbene. Nella sua lunga storia professionale due sono le operazioni che ne hanno decretato la fama: il risanamento della Montedison che in seguito al dissolvimento dell’impero dei Ferruzzi prese nel 1992 a 10 lire ad azione e lasciò a 5.500 lire e il salvataggio della Parmalat, dopo l’estromissione dei Tanzi. Ma è passato da molti altri luoghi del potere economico. Dopo avere lasciato Montedison, è transitato in Telecom e nel gruppo Ligresti. In entrambe le occasioni furono passaggi rapidi. In Telecom il mandato era quello di accompagnare l’azienda che usciva dalla stagione di Roberto Colaninno nella gestione di Marco Tronchetti Provera. Ma con Tronchetti le cose non andarono benissimo, perché Bondi era abituato ad avere carta bianca, e Tronchetti voleva fare il capo azienda. Lo stesso accade in Premafin. Non si intese con Salvatore Ligresti. Qualcuno dice per le ragioni emerse successivamente, e cioè l’eccesso di intimità finanziaria tra la famiglia e l’azienda.
Bondi è uno di quelli che crede nell’esempio. Dicono che quando arriva in un posto nuovo sceglie un ufficio non appariscente. In Telecom, raccontarono le cronache, rinunciò all’auto blu. Prese una Punto e andò a dormire in un residence a tre stelle. In Montedison introdusse il riciclaggio della carta per le fotocopie, all’epoca una specie di novità segnaletica per dire “tempi nuovi”. Precedenti per il suo nuovo mestiere di risanatore di Stato.
Primo impiego in Montecatini alla fine degli anni ’50 (con l’esperienza alla guida della Montedison quasi come ritorno alle origini 35 anni dopo). Poi dopo alcune esperienze, una in Snia, arriva un passaggio nel gruppo Fiat: alla Gilardini l’azienda di famiglia che era stata ceduta al gruppo torinese da Carlo De Benedetti in cambio del 5% di Fiat quando aveva accettato di diventarne amministratore delegato (alla fine dei cento giorni CDB vendette le azioni Fiat e lasciò la Gilardini al Lingotto). Secondo le ricostruzioni è in quella fase che entra in contatto con Cesare Romiti e di rimbalzo con Enrico Cuccia e il mondo Mediobanca a cui resterà legato (piccola curiosità: Romiti non parla di Bondi in “Storia segreta del capitalismo italiano”, il libro intervista con Paolo Madron appena uscito per Longanesi). Guido Rossi, presidente della società da risanare, non lo amava e sottolineava le somiglianze caratteriali con Romiti.
Nella battaglia per Montedison, Bondi si schiera con Maranghi a difesa dell’azienda dall’Opa di Fiat e dei francesi, ma lo fa con diplomazia. Alla fine spunta due rilanci da parte dei compratori. Ma senza alienarsi il rapporto con gli Agnelli. Tanto che a un certo punto si pensa all’ipotesi di Bondi alla guida della Fiat nella fase più difficile della vita del gruppo torinese. Ma la cosa saltò.
Poi dopo l’esperienza in Telecom e dai Ligresti, arriva la Parmalat.
Operazione complicatissima. Non solo per l’esposizione del gruppo, ma per il coinvolgimento delle banche internazionali. Bondi riesce a recuperare il denaro delle grandi banche con le cause e a guadagnarsi l’approvazione della grande stampa economica internazionale. E a tagliare i rami inutili, concentrando l’azienda sul suo core business, il latte. Ma in questa difficile azione di risanamento lui stesso sostiene di aver commesso un errore. Il 15 luglio del 2011 va all’Università Bocconi e in un convegno dice di non aver fatto abbastanza per assicurare lo sviluppo alla sua azienda, cioè di non avere saputo utilizzare 1,4 miliardi di euro che teneva in pancia per far crescere l’azienda con un’acquisizione di mercato e di aver subito l’attacco dei francesi di Lactalis (ancora loro, i francesi, dopo Edf).
Un’ammissione franca. Anche perché – dice chi lo conosce – è uno che parla poco, riluttanza che dovrà superare per spiegare e sostenere il piano di risparmi pubblici. C’è una florida aneddotica sul grande lavoratore nato ad Arezzo, che – come il suo scopritore Romiti – non prende stock-options; che, appassionato di scienze e di campagna, nella sua piccola azienda aretina, “Il matto”, produce olio che regala a chi gli è simpatico; che ogni anno allunga di una nuova voce (l’ultima era stata la chiamata al capezzale del San Raffaele di Don Verzè) il suo curriculum, ormai una specie di grafico della crisi di un pezzo del sistema imprenditoriale italiano.
Adesso Bondi si cimenterà con una cosa che non ha mai fatto. È la prima volta che ricoprirà un ruolo pubblico operativo. A suo tempo si parlò di lui per il risanamento di Alitalia, ogni tanto il suo nome è spuntato come ipotetico aggiustatore della Rai. Ipotesi mai realizzate. Oggi le condizioni sono cambiate. Sin dai tempi della Montedison, quando Monti era commissario europeo, ha ottimi rapporti con il presidente del Consiglio, anche personali (il figlio di Monti ha lavorato con lui in Parmalat), e anche buoni rapporti con Corrado Passera, Vittorio Grilli e Piero Giarda. Monti pensa che Bondi sia l’uomo giusto anche per la considerazione che si è guadagnato nel sistema finanziario internazionale. Certo resta un problema di fondo per il risanatore. È un manager da stato di crisi abituato ad assumere decisioni senza doverne rendere conto a un padrone momento per momento. I partiti che reggono la maggioranza sono azionisti con le loro difficoltà, ma comunque azionisti. E bisognerà ragionare con la politica.
Qualcuno gli ha già chiesto privatamente perché abbia accettato. Chi ha parlato con il neo commissario ritiene che abbia detto sì per tre ragioni, che sono le uniche che possono spingere a dire di sì un uomo di 78 anni che molto ha già fatto: il senso di sé; un certo spirito di servizio, cioè l’appartenza alla comunità; e la tipica suggestione della sfida – ma stavolta è molto più difficile – cimentarsi con la bestia da affamare, la spesa pubblica.

martedì 1 maggio 2012

Il tecnico dei tecnici dovrà combattere contro una magnolia

La sintesi su Enrico Bondi è: il tecnico dei tecnici. Punti di forza: Bondi è un uomo determinato, onesto, abituato a resistere ai condizionamenti. Punti di debolezza: il solito, affamare la bestia della spesa pubblica è politicamente molto difficile. Soprattutto in una situazione in cui il potere reale nell'amministrazione pubblica è nelle mani di una classe dirigente senza qualità e arroccata in privilegi seicenteschi. Resisteranno spezzoni dei partiti e la cupola che regge il pubblico impiego e il sistema statale, il cui simbolo è la grande – incolpevole e bellissima – magnolia che troneggia nel giardino del palazzo che ospita il Consiglio di Stato. 
Per qualche breve cenno sulla vita e le opere di Bondi, Il Messaggero di oggi.